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“Fior di giaggiolo, / gli angeli belli stanno a mille in cielo, / ma bello come lui ce n’è uno solo”. Così cantava mia madre per casa, certi giorni in cui l’intimità domestica la faceva contenta di quel poco di mondo. Lei che aveva voce da mezzosoprano, alla maniera di Lola che nella Cavalleria rusticana intona proprio quello stornello. Io ascoltavo, preso dalle assonanze, dalla fluidità delle parole ben poste di seguito per dire molto più di quel che dicono. Prodigio di una poesia popolare – o comunque, per osmosi e contaminazioni, fatta patrimonio di popolo – che soprattutto in Toscana può dirsi testimonianza letteraria. La questione l’aveva colta con acume Mario Luzi introducendo una riedizione dei Canti popolari toscani di Giovanni Giannini (Edikronos, 1981), allorché sottolineava l’oggettiva ambiguità del termine ‘popolare’ attribuito ad una produzione poetica nella quale non sappiamo in che misura il ‘rustico’ abbia attinto dalla cultura egemone e, viceversa, quanto il ‘letterario’ abbia trattato in maniera popolaresca spunti autentici di poesia provenienti dal suo opposto e primario universo. Ammesso – diceva sempre Luzi – che si fosse trattato di realtà veramente opposta e primaria rispetto a quella di ‘corte’.
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