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“I miei personaggi sono lo specchio delle nostre fragilità”. Parola della scrittrice Francesca Tofanari

“La stagione delle anime fragile” è il suo nuovo romanzo introspettivo

Serena Bedini

Firenze

26/11/2025

“La stagione delle anime fragili” (Bonfirraro) è il nuovo romanzo di Francesca Tofanari, apprezzata autrice fiorentina, giornalista di esperienza. Una storia intensa, affascinante, ricca di suggestioni profonde sull’esistenza, la difficoltà delle scelte della vita e la complessità dei rapporti umani. Abbiamo rivolto qualche domanda a Francesca per approfondire alcuni dei temi trattati.

Rispetto ai tuoi precedenti lavori molti dei quali dedicati a Firenze e altri a gialli, La stagione delle anime fragili appare assai più intimo, meditato, teso a svolgere un'introspezione psicologica dei personaggi assai approfondita. Cosa ha determinato questo cambio di tendenza nella tua scrittura? Ritieni che il futuro riservi altri romanzi su questo tipo di orientamento o ti piacerebbe l'idea di tornare al giallo?

Più che un cambio di tendenza, per me questo romanzo è stato un ritorno. La storia era nel mio cassetto da anni: ci lavoravo a intermittenza, anche mentre scrivevo saggi su Firenze o i miei gialli, ma sentivo che non era ancora pronta. Con il tempo, però, l’esperienza maturata scrivendo generi diversi mi ha aiutato a comprendere meglio l’animo umano e a dare alle mie “anime fragili” una voce più matura. Per un periodo ero convinta di non riuscire più a scrivere un romanzo così introspettivo, tanto che avevo ripreso in mano il quarto giallo della serie. Poi, qualche mese fa, è arrivata quella scintilla che considero una piccola magia per chi scrive: un’idea capace di rimettere in moto tutto. Nel frattempo è stato riscoperto anche il mio libro sugli artigiani e questo mi ha riportata verso altri progetti. È come se i fili del mio percorso si stessero riallacciando. Per questo non escludo nulla: né di proseguire sulla strada dell’introspezione, né di tornare al giallo. A volte è la scrittura stessa a indicarci la direzione.

I tuoi personaggi sembrano tutti alla ricerca, la ricerca di sé stessi, la ricerca di una direzione da prendere, la ricerca di un atto di autodeterminazione. Appaiono persi in una Firenze grande e distaccata come una metropoli. Loro sono come noi: una sorta di riflesso nello specchio della contemporaneità. Sono loro le anime fragili o siamo noi?

Credo che i miei personaggi siano lo specchio delle nostre fragilità. In loro si riflettono le domande che tutti, prima o poi, ci troviamo a porci: chi siamo davvero, cosa desideriamo, quale direzione vogliamo prendere quando la vita ci sorprende o ci mette alla prova. La loro ricerca non è diversa dalla nostra. È il tentativo di fermarsi, ascoltarsi, scegliere senza lasciarsi frenare dalla paura del giudizio. E Firenze, in questo romanzo, non è né protagonista né semplice sfondo. La considero una testimone muta: una città che osserva, che accoglie i loro smarrimenti e le loro rinascite, senza intervenire. Non sono solo loro le “anime fragili”. In qualche modo, lo siamo tutti. E forse proprio per questo riusciamo a riconoscerci nelle loro esitazioni, nei loro passi incerti, nei loro tentativi di autodeterminazione.

Si dice che ogni autore connoti le proprie opere del proprio vissuto, le assembli attraverso storie sentite raccontare, esperienze dirette, sensazioni ed emozioni provate in vari momenti. Quanto c'è di te nel tuo romanzo? C'è un personaggio in particolare in cui ti riconosci e perché?

Fa parte del lavoro dello scrittore osservare, ascoltare, annotare ciò che lo colpisce, che sia un’emozione, un gesto o una storia sfiorata per caso. Credo che ogni racconto, anche quello che sembra più lontano da noi, custodisca sempre qualcosa che ci appartiene. Non si può scrivere davvero senza lasciare, tra le righe, una traccia del proprio vissuto. Nel mio romanzo mi riconosco soprattutto in Giulia: nelle sue insicurezze, nei piccoli rituali con cui cerca di tenere insieme le cose, nella sua esigenza di dare un ordine al mondo quando il mondo sembra sfuggire di mano. Di Serena condivido invece il modo di vivere i sentimenti, le convinzioni sull’amore e sul tradimento, il desiderio di lasciarsi attraversare dalle emozioni senza riserve. E anche la sua capacità di vedere la sofferenza degli altri e, quando serve, di mettersi da parte. Credo che entrambe, in modi diversi, custodiscano parti di me — e forse proprio per questo sono riuscite a prendere vita con tanta forza.

Ogni capitolo inizia con una citazione tratta da un romanzo, da una poesia o proferita a suo tempo da un personaggio noto. Perché questa scelta? Tutti i brani citati costituiscono una summa dei tuoi libri del cuore?

Alcune citazioni sono nate insieme al capitolo: sono arrivate subito, quasi spontanee, perché risuonavano con il personaggio o con il tema che stavo affrontando. In altri casi, invece, ho dovuto cercarle. Ho lasciato che fosse il capitolo a guidarmi, seguendo l’atmosfera o la domanda che conteneva, finché non trovavo le parole capaci di aprirne il senso. Non è stata una ricerca enciclopedica, ma quasi un ascolto: cercavo parole che risuonassero con ciò che i personaggi stavano vivendo. Le citazioni non sono quindi una raccolta dei miei riferimenti preferiti, ma una sorta di dialogo tra la mia scrittura e altre voci. Ogni frase scelta è un varco: introduce un’emozione, una prospettiva, un’eco che prepara il lettore a entrare nel capitolo con lo spirito giusto.

I tuoi personaggi sono vivi, reali, pulsanti: quanto tempo ti è occorso per scrivere questo romanzo e dare spessore ai tuoi personaggi al punto di renderli più persone che individui frutto della fantasia?

 Il motivo per cui ho impiegato tanto tempo - parliamo di quasi dieci anni - a concludere questo romanzo è che faticavo a distaccare i personaggi da me stessa. Continuavo a sentirli troppo vicini a certi episodi della mia vita, come se le loro esperienze dovessero per forza rispecchiare le mie. Questo mi bloccava: avevo la sensazione, quasi inconscia, che lasciarli andare verso strade diverse fosse una forma di tradimento. La svolta è arrivata quando ho compreso che, pur contenendo qualche mio pensiero o frammento emotivo, la vita di Giulia, Serena e Andrea non è la mia. Le loro scelte, le loro contraddizioni, perfino i loro errori appartengono a loro soltanto. È stato in quel momento che hanno iniziato a respirare davvero, a muoversi con un’autonomia che non avevano mai avuto prima. E solo allora il romanzo ha trovato la sua forma definitiva. Più che un tempo cronologico, quindi, è servito un tempo interiore: il tempo necessario per permettere ai personaggi di diventare persone, e non semplici proiezioni della mia fantasia.

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