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Ascoltare i discorsi delle persone vale una laurea in sociolinguistica. In quel teatrino del risaputo c’è, infatti, tutto un tesoretto che bene esemplifica l’uso parlato della lingua, le sue varianti a seconda dell’istruzione, delle geografie, delle estrazioni sociali dei parlanti. Sono, quelle, le parole declinate nella realtà, intercalate nella consuetudine. Quando, cioè, i dialoghi della gente palesano livelli di cultura, gerarchie, sudditanze psicologiche, rapporti interpersonali. Parole che, a differenza di quelle scritte, non richiedono grandi sforzi di progettazione e che – frequentando zone libere da dazi grammaticali e sintattici – possono avvalersi del beneficio di svarione. Parole dette de visu: poche, ripetitive, dimesse. Proprio in riscatto di tale modestia, chiedono al pronunciante lo sforzo della mimica, dell’intonazione, della prossemica, così che questi elementi vadano a costituire significati aggiuntivi alle parole stesse. Tale è, appunto, la ‘lingua viva’, esplicazione delle diverse connessioni tra lingua, società, cultura. In Italia è interessante notare come la lingua italiana, da lingua di pochi sia diventata gradualmente di tutti. Si è dunque assistito ad una standardizzazione dell’italiano, che, però, non ha soppiantato i dialetti (pur declassandoli da lingua primaria a secondaria). Permane, infatti, l’aspetto plurilingue del nostro Paese, con un italiano cosiddetto ‘regionale’, che ha inflessioni e contaminazioni dialettali e che testimonia una dinamica sociolinguistica sviluppatasi nell’arco di mezzo secolo.
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