Tu prova ad avere un Faber nel cuore, e se riesci esprimilo con le parole. Si potrebbe sintetizzare così, con una variazione sul tema del “matto” di Spoon River il senso di questo saggio, che ha l’ambizione di unire due mondi: quello esteriore, che da oltre vent’anni mi vede frequentare le aule di giustizia, e quello interiore, che da molto più tempo si nutre con le canzoni di Fabrizio De André.

Due pianeti all’apparenza distanti e tuttavia avvicinati dall’attenzione, la lucidità e l’acume con cui un menestrello ligure ha indagato i temi della giustizia, della legge penale e del carcere meglio di molti “uomini e donne di tribunale”.

Mi sono così immerso nelle profondità deandreiane senza limitarmi al suo canzoniere, comunque scandagliato con rigore, ma ripercorrendone anche la vita e le molte occasioni in cui ha dimostrato, dalla drammatica vicenda del sequestro all’incontro con i detenuti del carcere di Is Arenas, come non ci fossero gradi di separazione tra il modo in cui viveva e ciò che affidava alle sue straordinarie canzoni.