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Almeno tu. Un thriller intimo e disperante

“Almeno tu” di Carlo Lucarelli è un romanzo che mette paura. Non per chissà quali colpi di scena, che, peraltro, in un thriller sarebbero d’obbligo. No, l’angoscia è data dal gorgo interiore in cui il protagonista è sempre più risucchiato e, dunque, dal terrore che qualcosa di analogo possa accadere a chiunque.

È infatti una persona qualsiasi il protagonista Vittorio, dalla vita che rolla in acque tutto sommato tranquille. Fino al giorno terribile in cui Elisa, l’unica figlia adolescente, muore mentre è fuori con un gruppo di amici. Un incidente, così si dice. Ma c’è chi instilla il dubbio che le cose siano andate diversamente.

Insinuazione che produce un definitivo sconvolgimento nell’esistenza di Vittorio e che sembra avvalorarsi in un sogno: “Questa notte l’ho sognata. Aveva due anni ed era così piccola, mi si arrampicava su una spalla come un topolino, rideva. Nel sogno avvicina la bocca al mio orecchio e il suo fiato caldo mi fa il solletico, ma quando sussurra ha una voce da grande. Dice: devi ammazzarli tutti”.

Allora quella morte va vendicata. Lo esige Elisa. La perentorietà della sua richiesta non può essere nemmeno inficiata dal sospetto che il sogno sia stato solo il frutto marcescente di una coscienza ormai fuori controllo. Vittorio diventa così un giustiziere. Abbandona il lavoro di insegnante e la moglie. In cerca di prove, si improvvisa detective addentrandosi in un universo giovanile a lui pressoché estraneo, comunque difficile da decifrare. Dà le dimissioni dalla vita per farsi vendicatore a tempo pieno, sempre più perso nella sua ossessione, nelle spire di un rabbioso sconforto, di una cattiveria fredda, pianificata dentro il silenzio del proprio delirio.

La narrazione di Carlo Lucarelli – esatta, distaccata, come prodotta in virtù di un antidolorifico – è posta a servizio di un siffatto thriller tutto interiore, privo d’azione, glaciale. Il racconto accompagna la trasformazione di un uomo comune in un criminale, in un essere il cui tormento (quando si subisce la perdita di una figlia, null’altro resta da perdere) offusca i confini tra giustizia e vendetta. Una dannazione che sovverte convenzioni, valori; volge improponibili perdoni in rappresaglia, rassegnazione in rivalsa.

“Almeno tu” è un thriller intimo e disperante. Obbliga a discernere ciò che può dirsi comprensibile dall’ingiustificabile. Ma soprattutto instilla l’inquietudine di una domanda davvero sconveniente: e se accadesse a te?

[Il libro sarà presentato a Bagno Vignoni sabato 13 settembre alle 19 nell’ambito della XVI edizione del festival I Colori del Libro]

 

***

Una volta io pregavo.

Tutte le sere, prima di addormentarmi, fin da bambino. Non che fossi particolarmente religioso, non lo sono mai stato, giusto le solite cose per uno come me, battesimo, comunione e cresima, l’ora di religione a scuola, a messa qualche domenica, con i nonni, e verso i quattordici anni basta. Se me lo chiedevano, non so, una volta, un prete, quando sono andato in montagna con una settimana bianca organizzata da una parrocchia, dicevo umanista laico di origine cattolica, e a parte la definizione così un po’ da liceo classico, di più non sarei riuscito ad approfondire, perché non era una cosa a cui pensavo molto, anzi, quasi mai.

Però pregavo.

Tutte le sere, da piccolo, la nuca sul cuscino e gli occhi chiusi, tre volte il segno della croce all’inizio e tre alla fine, bisbigliando sulle labbra, senza voce, con le mani congiunte sul petto. Poi sempre più dentro, a mano a mano che crescevo, le croci immaginate con gli occhi sotto le palpebre, la mia voce nella mente, le parole che risuonavano nette e distese, tutte, a meno che non mi addormentassi prima, cullato da quella specie di mantra che quando ero troppo stanco dopo un po’ si spegneva.

In principio, da bambino, erano le preghiere che avevo imparato, ave maria, padre nostro, atto di dolore, sia gloria al padre e al figlio e angeli di Dio che siete i nostri custodi, le preghierine, le chiamava mia nonna.

Poi, piano piano, mi sono concentrato sui nomi.

Perché non pregavo perché ero religioso, l’ho detto, e neanche per abitudine.

Pregavo perché avevo paura.

Paura che succedesse qualcosa alle persone a cui volevo bene.

Qualcosa di brutto.

Incastravo i loro nomi dentro le preghierine, ave maria era mia mamma, padre nostro mio padre e sia gloria mio fratello, io no, non ho mai avuto paura per me, neanche da bambino, sia quel che sia, chi se ne frega, ma per gli altri sì. E quando gli altri hanno cominciato ad aumentare, e le preghierine non bastavano più, allora ho iniziato a dirne i nomi, affidandoli a qualcuno, gesú bambino, gli angeli, la madonna, dio, qualcuno che stava da qualche parte, doveva esserci, se no come facciamo, e comunque a non crederci, a non pregarlo, mi faceva ancora più paura, perché magari si arrabbiava.

Paura.

E a mano a mano che qualcuno se ne andava, mia madre, i miei nonni, finiva dall’altra parte, a proteggere e guardare quelli che mettevo in fila, mia moglie, mio fratello e la sua famiglia, amici particolari, tutti.

Elisa.

Lei in mezzo, perché fosse più protetta, fin da quando Paola mi ha detto del ritardo, quando ancora non sapevamo né il sesso né il nome, ma io trovavo il modo di nominarla lo stesso.

Tutti in fila e lei al centro, il nome scandito bene in testa, con la lingua che si muoveva muta dentro la bocca, a picchiare sul palato.

Non era una cosa lunga, era tanta la gente a cui tenevo, ma la maggior parte delle volte mi addormentavo prima, o qualcuno lo saltavo.

Elisa mai.

Eli, mai.

Insomma, una volta io pregavo. Adesso no.

Adesso non prego più. Non ho più paura.

 

[da Almeno tu di Carlo Lucarelli, Einaudi, 2025]

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