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Brian. L’uomo che diventava persona soltanto al cinema

Brian, il protagonista dell’omonimo romanzo di Jeremy Cooper, è un tipo solitario, dalla vita irrisolta, conduce un’esistenza grama, scandita da una meticolosa routine che, se non altro, gli evita lo sconquasso della disperazione. Vive a Londra, lavora come contabile in un ufficio statale. Dopo aver alloggiato per anni all’ostello di St Pancras (“fino a quando il signor Trevor non era stato obbligato a cacciarlo perché superava di troppo il limite di età”) abita in un piccolo alloggio sopra un ristorante di Kentish Town Road, nella zona nord della città.

Non ha legami affettivi, amicizie, frequentazioni, anche perché – pur avendoci provato – non c’è luogo o situazione in cui si senta a proprio agio. Quando la sera torna a casa dal lavoro si prepara una tazza di tè che sorseggia mangiando un pacchetto di Chocolate Creams, i suoi biscotti preferiti, e si mette a guardare la televisione. Tra i rarissimi svaghi che saltuariamente si era concesso nel corso degli anni, qualche film proiettato in sale cinematografiche vicine casa. Una pellicola che avrebbe voluto vedere, ma mai ne aveva avuto l’occasione, era ‘Il texano dagli occhi di ghiaccio’ interpretato e diretto da Clint Eastwood.

Ricordava un frammento del trailer in cui un cacciatore di taglie alla ricerca del temutissimo texano (uomo mite che il dolore aveva trasformato in giustiziere) dice al compagno d’avventura: “Non è difficile stargli dietro. Semina morti sul suo cammino”. La battuta si era conficcata nella testa di Brian al punto che ripetersela nei momenti di maggiore stress lo faceva stare subito meglio.

Sarà proprio la visione di questo film a far sì che nell’esistenza del solitario contabile qualcosa cambi. Accade infatti che nella programmazione del BFI, il British Film Institute, viene riproposta la proiezione de ‘Il texano dagli occhi di ghiaccio’. Brian, “colmo di gratitudine per quel colpo di fortuna inaspettato, immeritato”, va a vedere il film. Ne esce infervorato, commosso. Toccato in quella sfera emotiva che lui stesso ha sempre inibito sotto la grigia patina della routine.

Decide quindi di iscriversi al BFI, ne diventa un assiduo frequentatore e, pur con la gradualità e i condizionamenti dettati dalla sua indole, inizia una vita sociale, prova la soddisfazione di poter condividere pensieri ed emozioni, scopre certe affinità elettive e cosa significhi avere un amico. “Chissà perché. Perché aveva aspettato di avere quasi quarant’anni prima di fare qualcosa di così evidentemente giusto per lui?”

Intendiamoci. L’impressione che si ricava dal romanzo di Jeremy Cooper (edito in Italia da Atlantide per la traduzione di Ilaria Oddenino) è che l’irrisolto Brian passi, di fatto, da una estraneazione all’altra. Dalla inanità di un’esistenza vissuta ai minimi termini, alla proiezione di sé nella finzione cinematografica. A un certo punto leggiamo che Brian “soltanto al cinema diventava una persona”. Comprensibilmente era quello il luogo in cui aveva instaurato rapporti umani e dove, spente le luci in sala, persino la sua vita assumeva qualcosa di stupefacente. Potenza e bellezza del cinema, che certamente non è la vita, ma le somiglia tanto.

***

Brian diventò un habitué del British Film Institute per gradi. Faceva tutto con cautela, concedendosi un timido passo solo dopo aver studiato a fondo il terreno. Prima di questo grande cambiamento, era andato al cinema solo ogni tanto, cinque o sei volte all’anno, forse qualcuna in più, scegliendo sempre la sala più vicina al posto in cui viveva. Non che i film non gli piacessero, ma era sempre troppo in ansia per il lavoro, troppo concentrato a mantenere il proprio impiego, ritrovandosi senza energie da dedicare ad altro e ben felice di trascorrere la maggior parte delle serate davanti alla televisione, con una tazza di tè e un pacchetto di Chocolate Creams, i suoi biscotti preferiti. Non sapeva bene perché, né sentiva il bisogno di scoprirlo, ma da quando se l’era perso una decina di anni prima aveva sempre desiderato vedere Clint Eastwood ne Il texano dagli occhi di ghiaccio. Un estratto del trailer gli si era conficcato nella memoria, il momento in cui un cacciatore di taglie sulle tracce di Eastwood dice al proprio compare: «Non è difficile stargli dietro. Semina morti sul suo cammino». Brian adorava quella battuta, e nei momenti più stressanti della giornata se la ripeteva tra sé e sé, sentendosi subito meglio. Proprio quando aveva abbandonato ogni speranza di riuscire a vederlo, da qualche parte sentì dire che avrebbero riproposto il film al BFI, a South Bank.

Colmo di gratitudine per quel colpo di fortuna inaspettato, immeritato, Brian comprò un biglietto.

Fu eccezionale, per nulla deludente, straripante di tenerezza e senso di rivalsa. Eastwood, regista oltre che protagonista, passava gran parte del film in sella, e questo sfoggio di destrezza e resistenza lo rese subito l’idolo cinematografico di Brian. E poi c’era il lirismo del paesaggio texano, che Josey Wales attraversava inseguendo senza pietà i combattenti unionisti, assassini di sua moglie e di suo figlio; e il modo in cui il film raccontava i contadini del Missouri, persone con speranze e dolori.

Brian era tornato al BFI a vent’anni di distanza dalla prima e unica volta, quando di anni ne aveva diciannove e il direttore dell’ostello l’aveva portato a vedere Kes insieme ad altri due ragazzi affinché capissero, aveva detto il signor Trevor, che anche in mezzo alle avversità può celarsi qualcosa di bello. Una roba del genere. Sembrava una vita fa, un’epoca che Brian si era lasciato alle spalle senza mai riuscire a trovare un posto alternativo in cui sentirsi realmente a proprio agio.

Nei primi anni della sua vita lavorativa aveva fatto il possibile per integrarsi, ma non sapeva mai cosa dire, a nessuno. All’interno di un gruppo si sentiva spinto ai margini, e si rendeva presto conto che la sua presenza era per lo più irrilevante. 

[…]

Da molti anni si riprometteva di diventare membro del British Film Institute, ma l’apprensione che provava al pensiero di fare qualcosa di nuovo glielo aveva sempre impedito. […] Un sabato pomeriggio, poco dopo aver visto Il texano dagli occhi di ghiaccio, Brian colse l’attimo: andò a South Bank e versò la piccola quota di iscrizione al BFI. Nel farsi scivolare una copia del programma mensile in borsa per studiarselo a casa provò un brivido di soddisfazione. Da quel momento in poi, prenotò una proiezione almeno un paio di volte al mese, rimproverandosi per non averlo fatto prima.

Chissà perché. Perché aveva aspettato di avere quasi quarant’anni prima di fare qualcosa di così evidentemente giusto per lui?

[…]

Non fu una decisione ponderata, anzi, quasi non si rese conto del cambiamento, ma nei primi mesi dopo il tesseramento le incursioni di Brian al BFI si moltiplicarono: da una volta ogni quindici giorni a una volta a settimana, fino a due volte nei giorni feriali e una nel fine settimana. Fare un ulteriore salto di livello e diventare una presenza serale fissa, parte di una cerchia ristretta di dedicati cinefili, fu invece una scelta consapevole, ragionata, ripresa e accantonata un’infinità di volte. I motivi principali che alla fine lo spinsero verso questo impegno che gli avrebbe cambiato la vita erano diversi. Innanzitutto, c’erano i pensieri cupi che avevano cominciato ad attanagliarlo nelle sere che trascorreva da solo in casa, dove ormai aveva persino smesso di prepararsi un pasto caldo. Troppo spesso, poi, non ricordava nulla delle ore che passava di fronte alla TV, non riuscendo quindi a partecipare, il giorno successivo, alle chiacchiere sui programmi serali durante la pausa caffè. Aveva anche smesso di leggere, cosa ancor più preoccupante, e gli era esploso un eczema sui gomiti e dietro le ginocchia. Sul lavoro riusciva a fare buon viso a cattiva sorte, nessuno sembrava accorgersi della sua disperazione. E se qualcuno se ne accorgeva, non diceva nulla. Non che Brian si aspettasse qualcosa di diverso, dal momento che evitare le questioni personali era una regola non scritta dell’ufficio. Se ne stava sulle sue, non conosceva nessuno abbastanza bene da intraprendere una vera e propria conversazione – né forse lo desiderava. Si rendeva conto che rischiava di crollare e che doveva trovare il modo di allentare la pressione che gli opprimeva la testa. Forse il cinema poteva essere la risposta.

A volerla vedere da un punto di vista più positivo, la ragione principale che l’aveva spinto a frequentare il British Film Institute tutte le sere era rappresentata dagli altri habitué: quel gruppo eterogeneo di uomini di mezza età, di solito sei o sette, che aveva osservato con invidia nelle loro discussioni ombelicali in un angolo isolato del foyer. Più li guardava, avvicinandosi di tanto in tanto per origliare, più cresceva il suo desiderio di farne parte.

Essendo il genere di persona che aveva bisogno di una sfilza di motivi per passare all’azione, Brian si appuntò sul taccuino una lista di altri punti favorevoli: la prospettiva di ripetute visite gratuite al museo che aveva recentemente aperto dietro al BFI, il Museum of the Moving Image; forti riduzioni alle bollette del riscaldamento grazie alle serate passate fuori casa; la soddisfazione di pianificare un calendario mensile, segnando titoli e orari sull’agenda e rilassandosi nella consapevolezza che fosse tutto organizzato, con ogni minaccia di sorpresa ridotta al minimo; e infine, a permeare ogni aspetto della sua nuova vita immaginata, il piacere infinito del cinema.

Brian iniziò a frequentare il BFI ogni sera.

 

[da Brian di Jeremy Cooper, trad. di Ilaria Oddenino, Atlantide, 2025]

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