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Costruire la controcorrente. Intervista all’architetto e designer Paolo Deganello (parte II)

Firenze tra conversioni ecologiche, foreste urbane e speranze per il Design del domani

La seconda parte della nostra chiacchierata con Paolo Deganello è avvenuta nella sede di ISIA Firenze, sulla collina del parco di Villa Strozzi. È un venerdì come un altro e la voglia di relax del fine settimana impregna già l’aria, insieme ai semi precoci dei cipressi. Arriviamo in Aula 3 – chi trafelata, chi un po’ meno – luogo dell’appuntamento con il nostro intervistato. Quando entriamo in aula, il professore ha appena concluso la lezione. Gli studenti e le studentesse racimolano chiacchierando i loro oggetti ed escono poi dall’aula. Il professore ci saluta e accenna con lo sguardo alla cattedra, un evidente e tacito invito negli occhi. Prendiamo due sedie e lo affianchiamo, l’app di Voice Memos già alla mano. Continua così la nostra lunga e ricca conversazione.

Il suo corso di Eco Design quest’anno lavora su un progetto concreto di rigenerazione urbana per Firenze, con il concept della foresta urbana applicato a Piazza Beccaria. Ci racconta come è nata l’idea e quali obiettivi si propone di raggiungere insieme agli studenti?

Per capire su cosa verte il mio corso si deve innanzitutto avere ben presente la sostanziale differenza fra trasformazione e conversione ecologica. La trasformazione implica un processo di evoluzione non traumatico dello stato presente delle cose. La conversione, invece, sottintende un approccio più radicale e incisivo; implica un vero e proprio cambio di direzione, sia nella forma mentis che nella realtà. Ecco, l’Eco Design lavora sulla conversione e, nelle mie lezioni, esemplifico come applicarla ai luoghi delle nostre città.

Qui a Firenze esiste un gruppo di ricerca intorno al botanico Stefano Mancuso, autore di un libro per me fondamentale: Fitopolis. In questo testo, Mancuso dimostra come la vegetazione sia uno strumento chiave per salvare ciò che è ancora salvabile nelle grandi città.

Partendo da questa suggestione, abbiamo progettato delle foreste urbane da inserire nelle piazze fiorentine, a partire da Piazza Beccaria, e facendo leva sulla tramvia. Questo comporta un profondo cambiamento nei vari approcci di vivere e transitare il luogo.
Ad esempio: i cittadini non arrivano più alla tramvia in macchina attraversando un parcheggio, ma muovendosi a piedi, in bici o al massimo in monopattino. È così che iniziamo a capire come possa cambiare una grande provincia — o almeno una sua parte — e come questa trasformazione possa diventare un motore di espansione per una conversione ecologica autentica. Si comincia così a immaginare città finalmente libere dal mito dell’automobile, che ormai è diventato insostenibile e ( a mio avviso) del tutto infattibile.

“La realtà è dura. È difficile vivere in questo mondo. […] Ma è proprio per questo che dobbiamo creare luoghi dove i giovani possano trovare riparo: dobbiamo ridare alle persone la speranza di vivere nel mondo”. Diceva Miyazaki, in una vecchia intervista per il New York Times (2005). Nel contesto della crisi ecologica e sociale, quale pensa sia oggi il ruolo delle nuove generazioni? Quali responsabilità attribuisce invece alla scuola e alla formazione progettuale nel supportare o, al contrario, ostacolare il potenziale trasformativo di ragazzi e ragazze?

Non mi piace l’atteggiamento scettico che tanti giovani hanno ormai interiorizzato nei confronti del presente. Se prestano fede a quello, finiscono per pensare che niente valga più la pena di essere fatto — quando non è affatto così. Purtroppo, credo che le nuove generazioni siano state vittime di un disegno preciso: una strategia di cancellazione della scienza dalle loro attitudini. Si è fatto in modo che perdessero interesse per il sapere scientifico, e questo ha avuto effetti devastanti. La capacità propositiva è andata distrutta, insieme alla volontà di fare meglio di quanto il sistema impone.

Io, per parte mia, risalgo la corrente in senso ostinato e contrario. Concentro il mio massimo impegno nel cercare di cambiare le cose  — e vorrei che anche i miei studenti assumessero questo stesso impegno. Perché, se l’atteggiamento resta quello che è stato loro imposto — ovvero accettare lo stato delle cose così com’è — allora tutto è perduto. Invece no: bisogna essere realisti, certo, ma senza mai rinunciare all’idea di poter cambiare il mondo. Trovo che questo pensiero sia un diritto inalienabile dei giovani — oltre che un loro preciso dovere. Non devono prestare il minimo ascolto a chi dice che cose del genere non sono possibili: è nei ragazzi che risiede il senso più profondo del cambiamento.

In un mondo che spesso scoraggia la speranza e riduce la progettazione a esercizio di stile, qual è la missione del designer oggi? Quale messaggio vuole trasmettere ai ragazzi e alla ragazze che desiderano cambiare le cose?

I giovani di oggi sono stati privati del giudizio critico e della capacità di analizzare la realtà che li circonda. La società contemporanea soffoca la loro attitudine a mettere in discussione le cose, a dire: Io non ci sto più, non voglio che il mio futuro sia nelle vostre mani”. Mi rammarica non sentire più nessuno pronunciare parole simili. Siamo arrivati al punto in cui ogni forma di pensiero divergente viene sistematicamente boicottata e ridotta a un’ideologia. Basti guardare all’emergenza climatica: oggi viene trattata come se fosse una devianza ideologica. Pare quasi che interessarsi alla sorte del pianeta sia una forma di radicalismo, una moda intellettuale, una stranezza d’élite. Ma quale ideologia, dico io? Ogni settimana siamo testimoni di eventi drammatici, danni irreparabili, morti evitabili. Questa è la realtà dei fatti. Non le chiacchiere, non le speculazioni — ma la concretezza brutale dei dati e delle esperienze. E, visto che tutto questo né mi sta bene, né tanto meno mi piace, cerco di fare qualcosa per ribaltare le cose dall’interno – come vi accennavo prima.»

Viste l’età e l’esperienza – sorride – credo che un ruolo da mentore, da guida per i futuri progettisti, sia quello che più mi si addice adesso. Non è più cosa mia stare fra gli attori protagonisti, ma posso certamente invitare e allenare altri ad assumere quel ruolo. I designer di oggi devono dimostrare che il cambiamento è ancora possibile, e che ciascuno di noi può dedicare le proprie migliori energie per realizzarlo. È loro (nostro!) compito aiutare le persone a scrollarsi di dosso la colla del nichilismo, e a riconoscere che non è vero che niente ha più senso. Anzi, semmai è tutto il contrario: ha senso solo ciò che nasce da una motivazione profondamente autentica. E quella motivazione non può essere rifare l’ennesima seggiolina per assecondare le mode o i mercati.

Serve progettare qualcosa di autenticamente nuovo, diverso — radicale. Qualcosa di controcorrente. La controcorrente è lo spazio del possibile, la dimora dei giovani — e anche quella dei progettisti. È uno spazio che va coltivato, nutrito, mantenuto vivo. Certo, bisogna pensare sempre in termini di plausibilità: non stiamo progettando una Città Invisibile. Ma è proprio perché vogliamo restare con i piedi ben piantati qui, sulla Terra, che possiamo — e dobbiamo — immaginare e costruire un nuovo modo di abitarla.

Botta & Risposta

Quale libro consiglierebbe a chi vuole approfondire l’Eco Design?
“Sole vento acqua. Italia a emissioni zero nel 2050” di Federico Maria Butera, edito da Feltrinelli (ma ce ne sono tantissimi altri!)

Quale canale, rubrica o strumento offre un’informazione valida e aggiornata sull’ecodesign e le pratiche sostenibili?
Il supplemento del giovedì de Il Manifesto, Extraterrestre.

Se dovesse sintetizzare l’intera conversazione in una parola o in una semplice frase, quale sceglierebbe?
Scelgo Conversione. È ora che noi progettisti lavoriamo per la conversione ecologica.

 

Clicca qui per la prima parte dal titolo Le case operaie, l’acriticità dello status quo e l’Eco Design come forza motrice del presente

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