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Cuore nero. Il dolore non è un’aura

“Cuore nero” (Rizzoli) di Silvia Avallone è un romanzo maturo, viscerale e sincero, qualità che non potevo attribuire al romanzo d’esordio, “Acciaio”, che avevo trovato costruito a tavolino, ammiccante e pieno di temi di moda, trattati in modo superficiale. Quindi mi sono accostata a questo ultimo romanzo con dei pregiudizi, devo ammettere, ma mi sono ricreduta alla grande.

Quello che colpisce di “Cuore Nero” è innanzitutto la vicenda raccontata con una lingua sapiente e ricercata senza essere artefatta. La scrittura scava nelle ferite della vergogna e del bisogno. Mai giudizi su quanto è accaduto, la zona grigia tra vittima e carnefice, tra chi ferisce e chi viene ferito rimane aperta. Nessuna morale, solo la vita che si dibatte, annaspando.

Soprattutto ho trovato magistrale la costruzione della storia e la tensione verso un finale non scontato. L’indicibile non è mai il mentre, l’attimo sconvolgente. È il lento, uniforme, inesorabile dopo. E questo viene raccontato con lunghi flash back, particolari che scavano nel profondo e fanno soffrire. L’autrice in “Cuore nero” abbandona le grandi città, le dinamiche sociali, optando per una narrazione intima, asciutta, che respira nel silenzio della neve e nel cuore spezzato dei suoi personaggi.

L’ambientazione è Sassaia, una località prealpina in Piemonte, un borgo abbandonato, come tanti dei nostri paesi, dove si ritrovano i due personaggi che animano la storia: una ragazza trentenne dal passato oscuro e problematico che viene accompagnata dal padre per risiedere lì e un uomo appena più grande, anche lui con un destino segnato profondamente.

Tra Emilia e Bruno nasce un legame che non ha nulla di romantico. I loro destini si incrociano, per poi separarsi, permettendo a entrambi, in questo intervallo, di capire e cercare di sopravvivere al dolore delle loro vite e al dolore che hanno provocato o subito perché, se qualcuno decide di trasferirsi in un borgo spopolato è perché vuole lasciarsi alle spalle quella stagione della vita in cui accadono le cose. La giovinezza, quando gli eventi ti travolgono, ti cambiano e ti sovrastano. Quando si decidono i destini. Il loro è un incontro crudo, instabile, imperfetto ma “La vita era una trama fragile, sospesa su un abisso, e lei rischiava di continuo di scivolarci dentro”.

Il libro è scritto in terza persona per quanto riguarda le vicende di Emilia e in prima per la narrazione di Bruno. Una scelta originale, un po’ spiazzante, ma efficace. C’è molta tensione e rallentamento nel raccontare i fatti che hanno prodotto il danno rispettivamente nei due protagonisti e questo crea notevole suspence.

La sofferenza è forse il tema centrale del romanzo, ma non il solo, perché la speranza guida le mosse dei tanti abbandonati al loro destino. “Ci sono buchi che non puoi riempire. Che resteranno lì per sempre, neri e profondi. Però, se vorrai, potrai costruirci una vita intorno. Come ricresce l’erba sul bordo dei crateri. Come si possono ornare i pozzi con vasi di fiori. La tua vita sarà sempre un anello intorno a questa voragine. Te la senti di accettarlo?”.

Entrambi finiranno con l’accettare questa opportunità, non sarà facile e la strada è costeggiata appunto di dolore. “Avrei potuto non raccoglierlo, ignorarlo. La mia testa diceva che sarebbe stato giusto restare fedele al passato, come se il futuro fosse solo una fantasia vaga, e vana. Invece lo raccolsi – dice Bruno – Ero stato un bambino felice, poi ero diventato un vecchio di colpo, e in mezzo non c’era stato niente”.

“L’arte è sempre un tentativo di luce, uno scarto rispetto al buio che c’è nella vita”. Ecco uno degli altri temi, l’arte come riscatto e possibilità di andare avanti non dimenticando il passato ma accogliendo il dolore per trasformarlo in qualcosa di bello. Sembrerebbe un concetto retorico, ma nella storia appare molto efficace.

“Il punto è che, intorno alle scuole medie, devi cominciare a staccarti dai tuoi genitori, a ridimensionarli, criticarli, vederli per quello che sono: due persone tra le tante, che ti sono capitate. Ma se a quell’età li perdi, dopo è impossibile staccartene. Impossibile ridimensionarli. Impossibile crescere. Emilia mi fissava con occhi attentissimi e non osava avvicinarsi. Lo sapevo anch’io: chi è sopravvissuto è intoccabile. Il dolore forma come un’aura”.

Altro tema è il rapporto dei bambini con gli adulti, sia gli adolescenti sia i piccoli alunni del maestro Bruno. Martino ferito e allontanato riuscirà grazie all’interessamento del maestro a porre fine alle sofferenze nella sua famiglia e troverà in lui una figura paterna autorevole e affettuosa, Bruno si legherà al bambino riconoscendo in lui quel sé stesso di un tempo, che nessuno era riuscito a salvare dai sensi di colpa di essere un sopravvissuto. “Non eravamo più ragazzini come gli altri, ma i due passeggeri che erano scesi all’ultimo dalla cabina maledetta e avevano schivato la morte. La salvezza è un’onta. Ma il dopo non te lo racconto: non interessa mai a nessuno”.

“Cuore nero” è un romanzo che parla soprattutto a noi. A chi conosce il peso delle proprie scelte, a chi ha sbagliato e ha dovuto pagare. A chi ha ricominciato da zero, senza chiedere perdono a nessuno ma cercando, testardamente, di essere migliore per sé stessa.  Silvia Avallone ci accompagna in un viaggio duro, spoglio, essenziale dentro il dolore femminile, la colpa, e quella fragile ma testarda speranza che si chiama redenzione. La montagna, in questo romanzo, non è solo ambientazione: è metafora. È isolamento, freddo e silenziosa complicità. Lì, in quel paesaggio bianco e spietato, Avallone ci chiede: possiamo davvero cambiare? E cosa serve per meritarsi una seconda occasione?

Leggere “Cuore nero” non consola, ma libera. È un’esperienza di lettura che lascia segni perché ci mette davanti a ciò che spesso ignoriamo. Perché si compiono determinate azioni? Qual è il processo che porta alla dannazione di persone ferite ma ancora integre. Quanto il non sentirsi visti, l’invidia e l’attrazione per chi è ha quello che manca a un adolescente può interagire con il suo destino?

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