Tra i dodici titoli candidati al prossimo Premio Strega c’è anche il romanzo di Wanda Marasco “Di spalle a questo mondo” (Neri Pozza). Pagine (oltre 400) di superba bellezza e teatralità, come certi spaccati di barocco napoletano.
La vicenda è ispirata alla figura di Ferdinando Palasciano (1815-1891), il medico chirurgo che al tempo dei moti insurrezionali del 1848 rischiò la fucilazione per avere sostenuto che i feriti di guerra dovessero essere soccorsi e curati a prescindere da quale parte combattessero. Un sacrosanto principio che avrebbe ispirato l’istituzione della Croce Rossa. Palasciano, con le sue idee e il suo impegno professionale, fu inoltre convinto sostenitore dell’assistenza medica universale. Personalità di spicco in ambito accademico e politico (ricoprì l’incarico di deputato e senatore nel Parlamento del Regno) visse a Napoli con la moglie Olga Pavlova de Wawilov, una nobile di origine russa, nel palazzo torre da lui fatto costruire sulla collina di Capodimonte ed oggi noto come Torre di Palasciano. Alla sua morte venne sepolto nel quadrato degli uomini illustri del cimitero di Poggioreale.
Il libro di Wanda Marasco va comunque ben oltre il romanzo biografico. Prende spunto, sì, dagli ultimi anni di vita di Palasciano, ma per costruire un potente dramma sulla fragilità umana, sull’ineluttabilità della morte dinanzi alla quale nulla possono l’amore, la scienza, il tenace attaccamento alla vita.
Ferdinando aveva conosciuto Olga come paziente affetta da claudicanza. Si innamorarono, lui la guarì con cure ed amore, vissero in simbiosi. Un legame inscindibile, anche quando il fervore di vita e ideali di Ferdinando prese a incupirsi, ad esondare nell’alienazione; ed Olga (che già aveva vissuto un’esperienza analoga con sua madre) si vide costretta a ricoverarlo in manicomio: “Urlava che ero morta e ho deciso. L’ho fatto internare quella mattina del 2 novembre perché la sua infelicità stava per diventare delitto. Ho avuto paura. La vecchia paura di essere amata da un demone. Ho pensato a mia madre. Alle sue urla ogni volta che mio padre doveva partire, a come si stracciava e gli profetizzava la morte, a quella fiaba che raccontava tutte le sere. Era piena di assalti e di frodi dello spirito. Ferdinando aveva la stessa tensione alla violenza e al sogno. Ferdinando era la malattia. Un’unica e vasta malattia risalita dal mio passato”.
Così che una nuova zoppia – soprattutto interiore – imporrà ad Olga la presa d’atto di quella claudicanza che tutti affligge e rende inabili: la precarietà dell’esistenza umana. E chissà se pure la follia (il voltare le spalle al mondo) altro non sia che l’estremo tentativo di venire a patti proprio con l’inesorabilità del destino.
Il romanzo ruota tutto attorno a questo dramma dell’imperfezione. A renderlo avvincente non è la trama, ma la narrazione in quanto tale, scandita da una lingua che lascia intendere uno spossante lavorio di cernita e cesello finché ogni parola non vibri di tutti i suoi multipli (in musica si chiamano armonici) o serva perfettamente a svelare quanto urge (spesso duole) dietro il suo pronunciamento. Parole per dire il dramma universale che nelle esistenze di Ferdinando e Olga si fa carne e tormento.
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Sono nella camera da letto, al primo piano della torre. Ascolto queste pietre. Hanno cominciato a parlare tredici anni fa, quando Ferdinando è morto. Non lo so se sono santificate o maledette. Me ne meraviglio a ogni momento. So che Ferdinando le ha fatte innalzare per imparare a morire. Non dico “mio marito”. Non basterebbe. Le pietre mi sgridano, vogliono essere eterne, dicono che devo chiamare Ferdinando sole, notte, padre dei miei desideri, caduta, amore. Oggi il giardino è muto. Non sento più gli uccelli, né il rumore del vento. Non ne sento la profondità fisica. È già una forma di inesistenza? Se è così, mi arrendo facilmente. Sono vecchia, adesso. Più brava a sottrarre. Via, via. È questa la parte essenziale. Essere in ginocchio, non nominare le vecchie attrazioni. Il 1904, quest’anno che non mi dà niente, è l’ultimo per me. Lo sento. Sento carne e ossa sotto i colpi di una mazza. Sento l’enormità e la debolezza del mio respiro. La torre, fino alla merlata, dice che questo è un addio. Lassù non salgo da mesi. Prima ci andavo per spiare il ritorno di Ferdinando. Non smettevo di aspettarlo. Ora ho capito. Raggiungerlo è un perfezionamento dell’anima. Ma ci credo? Ci credo sul serio? Voglio dire, posso andarmene servendomi del concetto di anima spifferato dal tufo della torre? Forse un metodo vale l’altro. È sufficiente affidare il corpo a uno scopo innocente. Che vada. Che portino il mio vicino al suo. Non posso fare altro. E ho già la fretta di uno spettro che vuole ritornare sui suoi passi.
Ieri ho parlato con Edoardo Dalbono. Non mi fido di nessun altro. Mi conferma che basterà pagare. Che il divieto di seppellire le donne nel quadrato degli Uomini Illustri può essere aggirato, come gli avevo suggerito, corrompendo le persone giuste. Lo farò. Gli ho lasciato le mie disposizioni. Le pietre sono in combutta col cielo. Me l’hanno imposto di essere il chiodo della memoria di Ferdinando. Non c’entra la tentazione di vivere. È il ripasso. Le pietre conserveranno lo scandalo, non smetteranno di raccontare come hanno trattenuto la coscienza di Ferdinando e la mia. Devo ricrearmi ascoltando. Finché Ferdinando e io non saremo vicini. Meno soli. Meno sconfitti.