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Guance bianche e rosse. Due giovani dentro una storia più grande di loro

È ricordato come l’eccidio di Porzûs, uno degli episodi più drammatici e dibattuti della storia della Resistenza italiana. Nel febbraio 1945 un battaglione di partigiani garibaldini, guidati da Mario Toffanin detto Giacca, sale alle malghe di Porzûs, sulle alture friulane. Là si trova il Comando delle Brigate Est dell’Osoppo, altra formazione resistente, però di ispirazione non comunista, capeggiata da Francesco De Gregori (il cantautore che ne porta il nome è suo nipote).

I partigiani garibaldini disarmano De Gregori e lo giustiziano. Oltre a un giovane partigiano che tenta la fuga, subiscono la stessa fine il delegato politico Gastone Valente ed Elda Turchetti, una ragazza che era stata affidata alla Brigata Osoppo perché sospettata di collaborazionismo con i tedeschi. Altri quattordici osovani vengono fatti prigionieri e, nei giorni successivi, uccisi. Tra costoro c’è Guido Pasolini. Quando alla famiglia giungerà la comunicazione della sua morte, il fratello Pier Paolo gli indirizza idealmente una toccante lettera rinvenuta tra le carte dello scrittore: “Caro Guido, ora che so che tu sei morto mi pare di non conoscere più il nostro passato […] E in quel giorno il nostro presente è finito per sempre”.

Ancora più noto è il componimento poetico ‘Corus in morte di Guido’ scritto da Pier Paolo in friulano: “Scappa torna indietro / Ti potevi salvare, / ma tu / sei tornato lassù, / camminando. / Tua madre, tuo padre, tuo fratello / lontano / con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, / in quel giorno non sapevano / che qualcosa più grande di loro / ti chiamava / col tuo cuore innocente”. 

I fatti di Porzûs vengono ora richiamati alla memoria nel libro “Guance bianche e rosse” (Einaudi), romanzo d’esordio di Elisa Menon. Non certo con pretese storiografiche (già molto e con controverse versioni si è scritto della tragica vicenda) ma – questo fa la letteratura – per leggere la Storia attraverso le vicende umane dei singoli.

Il romanzo prende spunto da una memoria di famiglia. Il nonno dell’autrice, Gino detto Lula, era stato tra i partigiani gappisti saliti alla malga per quel regolamento di conti fratricida. Gino, all’epoca dei fatti, aveva diciotto anni; un ragazzo coinvolto in cose molto più grandi di lui. Così come era accaduto alla giovane Elda Turchetti, la cui figura, pressoché caduta nell’oblio, è protagonista principale del racconto.

Elda è operaia al cotonificio di Udine, un lavoro gravoso e poco retribuito, diventato pure incerto a causa della guerra. Tramite un amico di famiglia, le si presenta un’allettante alternativa con ottimo stipendio e poca fatica: diventare “ascoltatrice di popolo”, cioè una spia a servizio del regime. Ingenuamente, forse con superficialità, accetta. Basta qualche settimana a renderla consapevole in quale schifezza si sia infilata. Lascia l’incarico e va a lavorare in una lavanderia, ma ormai porta addosso l’infamia della delatrice, viene denunciata, Radio Londra la segnala come spia a libro paga dei nazisti. Il mondo le frana addosso (“Io non c’entro, io voglio solo restarne fuori”) e nella sequenza degli eventi, laddove le sorti dei singoli incrociano sventuratamente la Storia, Elda si ritrova alla malga di Porzûs, e lassù si spegneranno per sempre la sua voglia di vita, i suoi sogni di donna.

Il libro di Elisa Menon pone in parallelo le vicende dei due giovani, Elda e Gino, soverchiati, in modi diversi, dagli accadimenti. Del resto quando la Storia irrompe nelle vite delle persone non porta rispetto, mette pressione, approfitta delle fragilità umane, è subdola. All’occorrenza fornisce anche giustificazioni a scelte dubbie o, peggio ancora, sbagliate. Ma fino a quale punto è ammissibile l’autoassoluzione? È un po’ questo il dilemma a cui conducono le vicende narrate in “Guance bianche e rosse”, pagine che la Giuria del Premio Calvino ha apprezzato per come “penetra nella grande storia attingendo con pietas alla storia personale”. È vero. In questo romanzo, più che un giudizio sulla Storia (e sulle storie di cui si dà conto) prevale l’afflato di una grande compassione. Ciò non significa prosciogliere i colpevoli dai loro torti, né tanto meno confondere la parte giusta con la sbagliata. Ma capire. Se non altro per educare sé stessi qualora un giorno la Storia ponesse noi difronte all’inatteso.

***

La scalinata che porta alle camere è esterna alla casa, dodici gradini di cemento grezzo, gli stessi da cui mia madre è scesa in abito bianco con un’orchidea tra i capelli per andarsi a sposare.

D’inverno il freddo è pungente, io e la nonna saliamo veloci e via di corsa sotto le coperte pesanti. D’estate il fresco è bello e arrivate in cima ci fermiamo a guardare su, verso il cielo nero, per sapere dalle stelle il tempo di domani. È pomeriggio, il nonno è seduto sul gradino e fuma, piano piano. Io giro in tondo nel cortile sulla mia bicicletta rosa più veloce che posso. Lui mi segue con lo sguardo in quel viaggiare sempre in curva, senza inizio e senza fine e senza tempo.

– Fermati.

Le mani reagiscono sui freni, i freni sulla ruota. La bicicletta si impunta, sobbalza, ricade. La corsa si ferma. Tutto il mondo si ferma.

– Cosa c’è?

Mentre depone con cura la sigaretta sul bordo dello scalino io, ben piantata con le gambe divaricate, la bicicletta inforcata, i palmi stretti sulla cromatura, non respiro.

Lui si avvicina lentamente guardando in basso. Si china verso i pedali, mette un ginocchio a terra e raccoglie il mio piccolo polpaccio nella mano. Allora scendo con lo sguardo anch’io, e vedo: un taglio aperto, come un occhio pieno di stupore, e un rosso vivo sulla pelle chiara che riflette disabituata il sole della primavera. Vedo la ferita e vedo il sangue, ma non sento il dolore. Non sento niente. Sono lontana da quello che mi succede. Resto immobile a guardare le sue dita grosse con le spaccature nere che stringono il taglio tra il pollice e l’indice premendo i lembi l’uno contro l’altro. Ma la ferita si schiude di nuovo, il sangue scorre, non si ferma.

 

Gino Persoglia, nome di battaglia Lula, mio nonno materno. Aveva da poco diciotto anni quando salì lassù attraversando boschi, erbe alte e nebbia, fino alle malghe, insieme a cento altri.

Poi la denuncia, la galera, il processo. E ancora un processo e l’amnistia. Poi tornò e sposò Lisetta. E così ci furono due figlie e due nipoti: mia sorella Eva e io. E i giorni dai nonni a Dolegna del Collio dov’era la loro casa: pomodori rossi tirati su dalla pianta e morsi lì nell’orto d’estate, piccoli cuori neri disegnati sui vetri appannati dal vapore della polenta d’inverno.

Morì a sessantasei anni che io ero ancora una bambina. Ma lo ricordo bene: i capelli grigi e la pelle scura, l’odore di fumo e lo sguardo basso, le mani spaccate e le unghie dure, le scarpe abbandonate sulla porta di casa dopo il lavoro nell’orto, e il sorso di vino bevuto di nascosto in cucina, direttamente dalla bottiglia sfilata dalla cesta di vimini. E l’occhiolino che mi faceva poi rimettendola via. Era un nonno silenzioso, buono, che sorrideva solo un poco, fumava tanto, senza filtro, e andava a pescare di notte, portando a casa al mattino un nodo di anguille nere che si agitavano in un secchio di plastica azzurra. Chissà cosa capivano di quell’azzurro gli animali in trappola. Chissà se quel riflesso nemico, di galera, lo distinguevano dal riflesso del fiume. Chissà se sbattevano il muso appuntito contro la parete dura perché la credevano una strada verso la fuga, o perché sapevano di dover morire, e allora il tempo si dilatava, insopportabile, tormentando i loro corpi affusolati fino a farli esplodere in spinte disperate.

Mentre giravo in tondo sulla mia bicicletta rosa, mi inseguiva l’immagine di quel groviglio luccicante che d’improvviso ribolliva. Sentivo come una fretta e pedalavo più forte, con una piccola, pesante disperazione nel cuore. Non volevo sapere. Non volevo vedere. Volevo scappare.

La sera avevo una cena speciale, diversa da quella dei grandi, e mangiavo zitta. 

– Ti fa male?

Non riesco a capire, non rispondo, non sento dolore. Il nonno si alza, afferra il manubrio e lo tira. Io allento i palmi ancora serrati, lo lascio andare e finalmente respiro. Lui mi sfila la bicicletta dalle gambe, la distende sul cemento, adagio, come per non spaventare, e mi prende la mano. Il sangue scorre sul polpaccio. È anche sulle sue dita, dentro le spaccature nere che ora sono rosse. Lui davanti che un po’ mi trascina, io dietro che un po’ mi affido, entriamo in casa.

La sigaretta brucia abbandonata sul bordo dello scalino.

 

[da Guance bianche e rosse di Elisa Menon, Einaudi, 2025]

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