E poi arrivarono gli anni Ottanta. Esaltanti, contraddittori, con tramonti scevri d’ogni rimpianto. Tempo di mutamento e disillusione, fulgori e meschinità, e soprattutto un gran piacere d’esserci. Fu spensierata rivoluzione, senza bandiere né idee, a meno che il disimpegno non sia da considerare un’idea.
A quegli anni che segnarono decise trasformazioni del nostro Paese, Edoardo Albinati ha dedicato ben tre romanzi. Dopo “Cuori fanatici” (2019), “Desideri deviati” (2020), ecco ora “I figli dell’istante”, lucido racconto su come il Novecento giocò d’anticipo sulla propria fine, rendendo il secolo quanto mai breve.
Le pagine di Albinati valgono un saggio (ne hanno pure la corposità, non il sussiego). Con bella padronanza di pensiero e di scrittura, arguzia e disincanto, perlustrano (rievocano) lo spirito di un tempo così vicino così lontano.
Siamo al debutto degli anni Ottanta. Prende a soffiare, forse inaspettata, l’aria del cambiamento. E, consapevolmente o no, cambiano le persone, invogliate da quei refoli che tutto frugano e legittimano. Questo accade anche ai personaggi del romanzo, contraddittori come il tempo in cui sono immersi e che sa declinarsi solo al presente. Personaggi – dice l’autore – “della medesima pasta con cui è fatta la loro patria, destinata a conservarsi nel tempo per puro miracolo, per grazia ricevuta […] Come scintille che dal taglio di una smerigliatrice sprizzano in ogni direzione, essi sciamano per le strade dello Stivale inseguendo chi un dovere (scelto o imposto), chi l’amore, chi il lavoro, o la salute, il denaro, la giustizia, la vacanza, la vendetta.” Persone piuttosto insignificanti, tant’è che “l’attenzione del dio impaziente che ne osserva dall’alto le avventure non dura più di un batter d’occhio, sicché loro non hanno nemmeno più bisogno di fuggire a nascondersi, per paura o vergogna, come Adamo ed Eva: poiché è lui che li trascura, dopo averli sparpagliati a piene mani in una semina casuale.”
E’ un romanzo corale (impossibile ridurlo a sinossi), dai molti personaggi che ruotano attorno ai due principali. Nico Quell (già il cognome costituisce un indizio) è l’impersonificazione della indeterminatezza, lavora nell’editoria, la sua inconcludenza ne fa un talentuoso sprecato, un mediocre pensante (pensa molto, infatti). E’ in procinto di partire per il servizio militare, esperienza disturbante ma che non contribuirà certo a smuoverlo dalla inettitudine. Nanni Zingone è un fascinoso insegnante di lettere, aspirante poeta, piace alle donne, ha famiglia e prova in ogni modo a non mandarla in malora. Condivide con Nico il rovello dell’indecisione, anche in amore, dove, però, la titubanza lo rende ancora più desiderabile.
Il tema della contraddizione attraversa l’intero racconto di Albinati, l’affollata galleria di personaggi, le loro storie e i variegati universi di provenienza. Del resto così fu – contraddittorio – lo spirito di quel decennio in cui i figli dell’istante ipotecarono, giustappunto all’istante, il proprio futuro (e l’istante non è nulla, perché nemmeno arriva a farsi presente).
Albinati – un po’ sociologo, un po’ archeologo di sentimenti, comunque instancabile affabulatore – fornisce doviziosi elementi di giudizio al tribunale sempre più inaffidabile della storia. Qui sfila un numero spropositato di chiamate in correità. Siedono sui banchi gli imputati, chi in imbarazzo, chi con supponenza, i più con la faccia del ‘ma io che c’entro’. Alcuni hanno già chiesto il rito abbreviato, altri confidano sulla mancanza di prove. L’accusa va giù duro, la difesa ribatte punto su punto. I brusii del pubblico lasciano intendere che prevale il partito degli innocentisti. Al di là del gioco delle parti, togati e principi del foro lavorano d’intesa affinché tutto possa andare in prescrizione. Così perfino ai posteri sarà risparmiata l’ardua sentenza.
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È per il fatto che il suo nome oggi risuona nella bocca di persone indegne di pronunciarlo che qui abbiamo preferito chiamare affettuosamente questo luogo benedetto della Terra col nomignolo derivante dalla sua forma riconoscibile su qualsiasi carta geografica, alla prima occhiata: una silhouette lunga lunga che si biforca e termina in tacco e punta come la calzatura dei cavalieri e dei butteri, dei militari e delle ragazze spavalde. Un singolare destino questo per cui un nome invocato nei secoli viene avvilito sino a diventare quasi impronunciabile: trasmesso da poeti irati e lacrimosi a politicanti furbacchioni. Tutti indistintamente proclamano di amare «’sto Paese» eppure quasi tutti indistintamente lo accusano di ogni vergogna e infamia. Non faremo qui nessuna delle due cose resistendo alla tentazione, il che è anche il modo migliore per comprendere di cosa si sia veramente capaci, capaci cioè di amare, di odiare, di capire, eventualmente di combattere, poiché resistere a una tentazione non è altro che resistere a se stessi. Eh già, in una popolazione che ci si immagina flessibile e adattabile all’infinito, un materiale che puoi martellare a piacimento piegandolo in tutte le fogge, spiccano innumerevoli casi individuali di ostinazione, quasi di ossessione nel restare saldi su un punto, su una linea di condotta o di convinzione anche a costo di finire in galera o sul patibolo. La verità nello Stivale può fare capolino solo attraverso la sensualità, come nella voce di una soprano pettoruta che canta in chiesa la Petite messe solennelle di Rossini – la quale a ben vedere non è affatto piccola e per niente solenne: quella sensualità resta la sola garanzia riservataci che tutto ciò che sta accadendo accade concretamente, nel corpo, come i buchi nelle mani di Gesù Cristo dove sono passati i chiodi prima di ficcarsi nel legno. Così è per la carne martoriata dei santi e per quella soda delle attrici prosperose.
[…]Sì, la bellezza, la musica, il canto a gola spiegata, le forme aeree, i colori, la levigatezza dei nudi e la grazia con cui si inarcano i piedi delle statue, il sorriso dolente ed enigmatico delle madonne di paese avvolte in panni che erano fino a un’ora prima riposti, ben piegati, in un cassetto, e poi angeli – eh sì, gli angeli, ovunque angeli, un brusio fitto come di rondini in un sottotetto, e sfarfallanti tra nuvolette o appollaiati in cima alle absidi, che sbirciano ovunque, dai soffitti ammuffiti dei castelli, nascosti in guardaroba, sul coperchio delle cassepanche e sopra il lettuccio dei bambini febbricitanti. Con le loro piume variopinte decorano l’opera dei potenti e consolano chi soccombe sotto il giogo di quelli. Alati lestofanti! li chiamava quel poeta che si ama senza riserve a diciott’anni. Sarebbero pronti, gli angeli, piuttosto che al soccorso, persino a calpestarci, a scacciarci dalla felicità e se ancora non lo fanno è perché sarebbe un gioco troppo facile per essere divertente.
È l’angelo in fondo una creatura indifferente? Ai dolori, alle passioni non ancora spente? Si mantiene fuori dal tumulto, spettatore neutrale di miserie e appunto per questa sua siderale lontananza, implacabile? La storia patria è una ininterrotta sfilza di città assediate ed espugnate, quindi riconquistate dagli stessi di prima, con gli inevitabili saccheggi e ritorsioni, e poi di nuovo perdute – insomma, un’alternanza di fughe e rappresaglie che fa venire il mal di testa a chi le deve studiare per un esame all’università. L’alleanza con Dio non è stata firmata una volta per tutte, come si sono premuniti di fare altri popoli, il patto aveva troppe deroghe e Dio decisamente non era dalla nostra parte, poiché il nostro Dio, purtroppo, non è soltanto nostro ma è di tutti, di tutti, a cominciare dai nemici e da chi è pronto a offrirgli sacrifici più ricchi per farsi perdonare peccati più gravi. L’alleanza e il venirvi meno, la legge e l’eccezione, l’onesto celare il proprio cuore e il nobile mutamento d’animo, coraggio e sfrontatezza, il sentimento verace e quello perfettamente simulato sono le pietre di cui è lastricata una storia millenaria, mille volte stratificata, come il dolce domenicale che si sbriciola sotto i denti distruggendo in un boccone ore di paziente cesellatura in laboratorio. Che delizia lo spreco!
È appunto lo spreco il segno distintivo dei popoli che abitano lo Stivale, o meglio, vi sono accampati, vi bivaccano, come disse uno scrittore satirico e dunque malinconico, lo spreco da una parte e il diligente risparmio dall’altra, accumulato per essere appunto bruciato tutto insieme, in una botta sola: ma le ceneri e le briciole a fine festa nessuno ha voglia di spazzarle via, e quel residuo diventa velenoso. Il veleno è un protagonista assoluto delle nostre vicende, mescolato ai cibi e alle bevande, o nell’intossicazione intenzionale delle parole, nelle viscere enfiate dall’invidia quando i successi altrui si tramutano nella nostra personale disfatta. Quanti corpi e quante menti, anche delle migliori, le vicende dello Stivale hanno giorno dopo giorno intossicato con la frustrazione e con il risentimento! Quasi tutti i nostri più grandi poeti si sono alimentati del veleno che li ardeva dentro, o del veleno che gli altri gli versavano addosso. Persecutori di se stessi o perseguitati dal mondo. Ma era per una causa più grande che le virtù venivano adoperate e le disgrazie personali sopportate, una causa sempre più elevata, così elevata da ascendere alle sfere celesti e colmare i vuoti spazi del cosmo col furore delle idee e la potenza delle immagini. Rappresentare plasticamente la gioia, la pena, il gioco, il castigo, la profezia, il potere e la bellezza, soprattutto la bellezza, è stata la spinta più forte a penetrare nella roccia dei secoli, laddove si intravedeva una fessura. Ficcato in quei pertugi, qualcuno è rimasto incastrato perdendo la vita, qualcuno è riuscito a passare tra le strettoie e le difficoltà portando in salvo le proprie preziose creazioni e invenzioni da offrire ai familiari, ai concittadini, a quelle stesse autorità che lo avevano perseguitato, e infine al mondo intero – il vero destinatario di quei doni. Sì, è al mondo intero che lo Stivale parla, quando non è impegnato a mugugnare. Lo Stivale si è sparpagliato sulla terra in laboriose comunità, villaggi trapiantati altrove, una radice che alligna ovunque, il fabbro come l’architetto, il minatore e la cantante d’opera – bersagli prima del disprezzo e poi dell’ammirazione. Il mondo da sempre corteggia lo Stivale e poi lo umilia e poi di nuovo lo corteggia – il mondo è esigente, si aspetta grandi cose dallo Stivale, uno scoppiettio di meraviglie, e intanto scherza alle sue spalle dando a intendere che quello sia appunto il Paese dove si viene al mondo per ridere e giocare, e ci si scalda come gatti al sole, dove gli uomini guardano il culo delle donne e le donne se lo rimirano allo specchio, il Paese delle rotondità, degli arrotondamenti, della generosa approssimazione e della vendetta spietata. «Ah, sono sempre i soliti» si pensa di noi, «non cambieranno mai», mentre noi intanto pensiamo lo stesso e questo impedisce a un nuovo pensiero di formarsi, lo strangola al concepimento. «Non cambieranno mai» – mentre tutto ci sta cambiando e ogni generazione stenta a riconoscere la seguente pur non avendo il coraggio di diseredarla, stremata dagli sforzi epici che furono compiuti per il conseguimento del benessere.
[da I figli dell’istante di Edoardo Albinati, Rizzoli, 2024]