Il romanzo “I giorni di vetro” (Einaudi) di Nicoletta Verna, nonostante si sia aggiudicato una sfilza di premi come il Premio Mario La Cava, lo European Union Prize for Literature, il Premio Sila49, il premio Chianti, è tuttavia stato escluso dalla dozzina dello Strega, mentre secondo il mio parere avrebbe meritato la vittoria per la complessità e l’argomento.
Il filo conduttore del libro sta nell’interrogarsi su che cosa è l’umano e il non umano: le due figure maschili principali, contrapposte, sono infatti emblematiche. “Perché la gente, nelle sventure, è di due razze: quella che gli si smuove la pietà e quella che tira fuori la carogna. Nessuno resta com’era”. La citazione, di Terrence Malick, in esergo credo che voglia sottintendere questo.
Il romanzo è ambientato in Romagna, negli anni bui del Fascismo e della guerra. Nasce Redenta, in un giorno segnato dal delitto Matteotti: la sua vita porta fin dall’inizio il segno del destino e della superstizione. Affetta da poliomielite, cresce con una “gamba matta”, che la rende fragile agli occhi degli altri, ma non intacca la sua ostinazione silenziosa, anzi la rafforza.
Il romanzo intreccia la sua esistenza con quella di due figure opposte: il gerarca Vetro, incarnazione del male assoluto, che segna la vita del paese con la sua violenza crudele; e Iris, giovane colta, coraggiosa, che diventa per Redenta amica e punto di riferimento perché sceglie la passione e la lotta partigiana, mentre Redenta è costretta a sposare il gerarca Vetro, uomo spietato e crudele fino all’inverosimile. Alcune pagine sono veramente durissime da leggere.
Assistiamo dunque alle vicende del Fascismo, della guerra, della Resistenza, visti attraverso il corpo vulnerabile e lo sguardo fiero di Redenta. È lei, con la sua innocenza resistente e il suo modo tutto femminile di affrontare il dolore, a rivelare come anche la vita più segnata possa custodire dignità e speranza. “Il bene non sta esattamente dov’è istintivo collocarlo. Il bene a volte è una forma contorta e tortuosa di male, e il male è necessario, è un viatico per un bene più grande, incomprensibile”.
Dunque, forti e rappresentative le figure femminili: subiscono, vengono coinvolte nella ferocia della storia, ma non sono solo accudenti; sono anche determinate e, alla fine, più della giustizia vince la pietas. In poche parole, è la storia di una donna “imperfetta” che attraversa la violenza del Fascismo e trova, nell’incontro con la Resistenza e con altre donne, la possibilità di resistere e di custodire un senso, anche tra le distruzioni.
Un romanzo che fa pensare al Fenoglio di “Una questione privata”; lo ha dichiarato l’autrice stessa presentandolo come il suo “libro della vita”. In entrambi i romanzi il corpo è il vero protagonista nascosto della Resistenza: più della politica o dell’ideale, è la carne che porta il peso della libertà. Corpo come ferita originaria, per Verna. Redenta porta la poliomielite come marchio: il corpo malato non è limite assoluto, ma condizione di uno sguardo diverso, più profondo.
“Il corpo si riduceva a fame, freddo, sonno. Johnny sentiva che non era più lui, ma un animale che sopravviveva”, Fenoglio (Il partigiano Johnny). Qui il corpo è pura sopravvivenza, spogliato di ogni altra dimensione. Fenoglio lo rappresenta come materia in guerra: stanco, ferito, affamato, caduto. Verna guarda al corpo come ferita intima e resistenza quotidiana: vulnerabile, fragile, ma anche spazio di dignità e cura.
Un altro personaggio femminile che viene spontaneo accostare è la protagonista de “La ragazza di Bube” ma, a differenza di Redenta, Mara non rompe mai davvero gli schemi patriarcali: la sua forza è la resistenza privata, non la rivoluzione collettiva. Così per le protagoniste dei libri di Elsa Morante, il cui libro si può avvicinare per la dimensione epica, dove le figure femminili sono strette nella rete della memoria, della menzogna e della narrazione familiare. Vivono la condizione subalterna della donna di fine Ottocento e inizio Novecento.
Rispetto a Redenta, siamo di fronte a personaggi che non trovano uno sbocco politico o collettivo, ma restano dentro la tragedia del racconto familiare e i desideri rimangono intrappolati in un destino ereditario e simbolico. Modesta (L’arte della gioia, Goliarda Sapienza) è forse la più vicina a Redenta per energia sovversiva. Modesta si ribella alla povertà, alle istituzioni, alla morale cattolica e patriarcale, costruendo una vita autonoma, anche scandalosa. Rispetto a Redenta, Modesta è più radicale e “individualista”: non rappresenta una collettività femminile, ma un’eccezione eroica.
Possiamo dire che Redenta e Modesta incarnano il “femminile ribelle”, uno collettivo, l’altra individuale, mentre Mara e le donne di Elsa Morante mostrano i vincoli e i limiti che ancora le legano a una dimensione subalterna o tragica e penso a Ida de “la Storia”.
“È questa la reminiscenza più vivida che ho di mia madre: l’ostinata, ferrea soddisfazione che trova nell’obbligare le persone a essere migliori.” Redenta è ingenua, ma il suo sguardo sbilenco vede ciò che gli altri ignorano. È vulnerabile, ma resiste alla ferocia del suo tempo. È un personaggio letterario che rimane impresso, direi scolpito.
Il libro mi è piaciuto molto, una scrittura superba e la trama che prende fin dall’inizio. Ad ogni modo ho trovato decisamente migliore la prima parte, con le invenzioni linguistiche del dialetto e il punto di vista di una bambina.
Nelle pagine buie della violenza, lo stile invece si ritrae, si asciuga, diventa essenziale e permette di sentire ancora più forte la sofferenza per trovare, nelle parole una bellezza crudele, e una spietata violenza, là dove nelle pagine dell’infanzia tutto è più dolce e intimo, anche grazie al sapiente uso del dialetto romagnolo. Un libro che rimarrà impresso a lungo, assolutamente da leggere.