Vengono chiamate dinamiche di coppia, ma, a dispetto delle definizioni, l’amore che si fa pariglia – e ancora di più laddove assuma statuto di matrimonio – può diventare alla svelta teatro di monotonia. Forse provvidenzialmente. Come quando i due, delusi nelle aspettative, incapaci di gestire i conflitti, optano (ovviamente senza dirselo) per l’immobilità. Ovvero, facendo in modo che nulla debordi dalla routine, così da non mettere a rischio equilibri costruiti sull’elusione dei problemi.
Eh già, diventare coppia è roba complicata, non basta fare uno più uno; c’è da mettere insieme (senza annullarli) due universi per crearne uno nuovo attraverso un’energia (e questa sì che sarebbe dinamica di coppia) generata dalla salvaguardia delle peculiarità individuali e, al contempo, dalla appartenenza all’altro.
Pare una riuscita allegoria sul tema il romanzo “Il colpo segreto” di Jessica Anthoni (traduzione di Dario Diofebi per le Edizioni Sur). Protagonisti sono Kathleen e Virgil, che insieme ai due figlioletti Nicholas e Nathaniel formano una tipica famiglia americana della middle class. Vivono nella cittadina di Delaware, sulla costa est degli Stati Uniti. Il racconto, al netto di doviziosi flashback, è tutto compreso nell’arco di una giornata del novembre 1957. Per le vicende del mondo una giornata particolare, segnata dall’escalation della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica: i russi, dimostrando la loro superiorità tecnologica, hanno lanciato nello spazio lo Sputnik 2 con a bordo il primo essere vivente (la cagnetta Laika).
Gli accadimenti del mondo non sembrano comunque turbare la routine familiare di Kathleen e Virgil. È domenica mattina. Virgil già si sta preparando per recarsi in chiesa con moglie e figli, ma Kathleen, ancora a letto, dice di non sentirsi bene e che sarebbe restata a casa. Padre e figli salgono dunque in macchina per percorrere i venticinque chilometri che separano Acropolis Place, il complesso residenziale dove risiedono, dalla First Presbyterian. Assolto il precetto festivo – anch’esso parte di quella collaudata serie di azioni che si fanno perché vanno fatte – il ritorno avrà qualcosa di inaspettato.
Kathleen, indossato il suo storico costume da bagno, si è tuffata nella piscina condominiale e da lì non intende assolutamente uscire. Vane saranno le suppliche del marito che, a più riprese e sotto gli sguardi incuriositi dei vicini, proverà a farla recedere da quel bizzarro comportamento. Solo un gesto bislacco? Niente affatto. È una studiata provocazione, il desiderio manifesto di voler sovvertire l’insopportabile routine. Come a dire: vogliamo parlarne? Dei segreti mai confidati, delle insoddisfazioni taciute, delle ambizioni cui ciascuno ha abdicato (lei tennista in carriera; lui aspirante jazzista rimasto tale), di un matrimonio diventato asfissiante, vissuto all’insegna del non-detto.
Ecco così svelarsi al lettore una storia di coppia alle prese non con la fine, ma con l’incompiutezza dell’amore. Attraverso una scrittura garbata, fluida, scandita da un ritmo costante e coinvolgente, Jessica Anthoni fornisce un utile apologo dell’amore imperfetto. A ricordarci che, in fin dei conti, sta proprio nell’imperfezione la ragion d’essere dell’amore.
***
Kathleen Beckett si svegliò sentendosi poco bene. Era domenica. Novembre. Faceva un caldo fuori stagione. Kathleen si scrollò di dosso le coperte e si girò a pancia in su e si slacciò la camicia da notte. Non sarebbe venuta in chiesa, disse a suo marito Virgil, ma non c’era niente di cui preoccuparsi. Loro potevano andare tranquillamente senza di lei.
Virgil esitò un istante. Erano sei mesi ormai che andavano in chiesa, e finora sua moglie non aveva mai saltato una funzione. «Sicura che stai bene, tesoro?», le chiese, facendosi il nodo alla cravatta.
Kathleen, Kathy per gli amici, Katie per Virgil nei momenti di dolcezza, annuì dal letto. «Sto benissimo», disse. «È solo che non mi sarei dovuta mettere a letto con questa roba di flanella addosso. Voi andate però. Ci vediamo quando torni».
Virgil baciò sua moglie sulla fronte. I due figli, Nicholas e Nathaniel, apparvero sulla soglia della stanza. «Mamma non sta bene», gli disse. «Voi andate a prepararvi».
I bambini guardarono la madre.
«Cos’ha che non va?», chiese Nicholas.
Virgil gli lanciò un’occhiataccia. «Ti ho detto che non sta bene. Non darle fastidio».
I bambini tornarono in camera loro a mettersi i vestiti buoni della domenica. Virgil preparò la colazione, poi caricò tutti sulla sua nuovissima Buick Bluebird del ’57 e si avviò in direzione della First Presbyterian. La chiesa era a venticinque chilometri di distanza da Acropolis Place, il complesso residenziale soleggiato e a pianta pentagonale alla periferia di Newark, Delaware, dove i Beckett abitavano dal maggio precedente, da quando Virgil aveva cominciato a lavorare per la Equitable Life di Wilmington.
[…]Magari dopo le feste avrebbero cominciato a cercarsi una casa a Wilmington, pensava, ma nel frattempo ogni domenica tutta la famiglia doveva farsi i venticinque chilometri fino alla First Presbyterian e sedersi sulle panche di legno per quaranta minuti, ad ascoltare il reverendo Underhill che parlava con una calma serafica di Gesù Cristo e di cene parrocchiali.
Dopo la funzione, in genere, Virgil e gli altri uomini della Equitable si trattenevano in un angolo del cortile della chiesa, con i vestiti stirati e il cappello in testa, a fumare e a parlare di affari, delle proprie famiglie e del pomeriggio libero che avevano davanti, mentre le donne, impeccabili nelle loro crinoline, rimanevano sulla soglia a chiacchierare con il reverendo, in attesa di passare il pomeriggio a cucinare e a bere cocktail. Quel giorno, con un caldo così strano per novembre, tutti si sbrigarono ad andarsene il prima possibile, lasciando il reverendo a osservare i suoi parrocchiani che saltavano in macchina in fretta e furia, e a chiedersi cosa mai avesse detto per farli scappar via tutti.
Virgil Beckett fu il primo a uscire. Nella navata risuonavano ancora gli accordi maggiori dell’ultimo inno quando lui sussurrò ai bambini di prendere i cappotti. Per prima cosa vado a vedere come sta Kathleen, pensò. E poi chiamo Wooz. Il circolo avrebbe aperto di sicuro, con una giornata così, anche se a Virgil non era mai capitato di giocare a golf tanto in là nella stagione.
Sugli alberi non c’era già quasi più una foglia.
Virgil aveva pensato al golf per tutta la funzione, e non avrebbe saputo ripetere una sola parola del sermone del reverendo Underhill. Da buon californiano, apprezzava una bella estate di San Martino, e si vedeva già in pantaloni leggeri e maglia estiva a roteare la mazza, con il sudore che gli scendeva lungo la schiena. Si immaginava l’odore dell’erba calda e ingiallita sotto i piedi, la vista di quel sole autunnale che splendeva in cielo. E ora che si affrettava a far salire i bambini in macchina, si domandò preoccupato se davvero il circolo fosse aperto, e se qualcuno si fosse preso la briga di rastrellare e falciare l’erba.
«Dai, andiamo», disse, e i bambini si infilarono sui sedili posteriori della Bluebird.
Virgil diede uno sguardo ai suoi figli dallo specchietto retrovisore. Per tutta la mattina non avevano parlato granché, e ora se ne stavano stravaccati sul sedile. Si erano già tolti i cappotti. In faccia erano rossi e sudaticci.
«Va tutto bene, ragazzi?», disse.
«Non ci piacciono i vestiti della domenica», disse Nicholas.
Nicholas, il più piccolo, parlava spesso a nome di entrambi.
«Siamo quasi a casa», disse Virgil. «Quando arriviamo potete cambiarvi e uscire un po’ all’aria aperta. Guardate che giornata! Perché non andate a giocare un po’ a baseball magari? Potreste mettere su una partitella».
I bambini non risposero.
Virgil mise la freccia a sinistra. Rimasero in attesa, al suono del ticchettio della Bluebird.
[…]Aiutò i figli a scendere dalla macchina, chiuse gli sportelli, salì le scale due gradini alla volta fino all’appartamento 14B e andò dritto in camera da letto a vedere come stava sua moglie. «Kath?», disse.
Ma lei non c’era.
Per un istante Virgil rimase dov’era, lo sguardo fisso sul letto. Era rifatto con cura.
«Kathleen?»
Uscì dalla stanza e cercò in salotto, poi in cucina. Di lei neanche l’ombra. Gli venne in mente che forse era uscita un attimo per comprare dell’aspirina o qualcosa del genere, ma poi sentì Nicholas strillare:
«Mamma è in piscina!»
Virgil raggiunse i figli sul balcone.
Kathleen era dritta in piedi sul lato lontano della piscina, con l’acqua fino al petto, i gomiti poggiati comodamente sul bordo arrotondato. Aveva indosso il suo vecchio costume rosso, dei tempi dell’università. Erano anni che Virgil non lo vedeva.
«Kathy», le strillò, ridendo. «Ma che fai?»
La donna alzò lo sguardo, riparandosi gli occhi dal sole con una mano. Tra le dita stringeva una sigaretta.
Vide Virgil e sventolò un braccio per salutarlo.
Virgil tornò all’ingresso, ridiscese le scale, e nel tempo che gli ci volle per raggiungere il bordo della piscina, alcuni dei vicini avevano aperto le proprie porte a vetri e se ne stavano a guardare da dietro le ringhiere dei balconi.
Virgil si piegò in ginocchio. «Kath», disse. «Va tutto bene?»
La signora Beckett sorrise a suo marito. «Sto benissimo», disse. «Mai stata meglio, anzi».
«Che ci fai qui giù?»
Kathleen Beckett, Lovelace da nubile, era stata un’atleta, da giovane. Era alta, e un tempo snella. Il suo sport era il tennis, dove aveva avuto un buon successo a livello giovanile, vincendo il torneo inter-universitario femminile del ’47 e del ’48, quando era iscritta all’Università del Delaware. Una sua foto in bianco e nero vestita da tennis, con la racchetta in mano, restava ancora in bella mostra nella Memorial Library dell’università.
Diceva che il suo idolo era Margaret Osborne duPont, la campionessa americana in carica, che arrivati al 1957 aveva vinto trentatré titoli del Grande Slam e dieci Wightman Cup. Margaret Osborne duPont, che abitava in una gigantesca villa a Wilmington, una trentina di chilometri a nord-est di Newark, era la tennista con più resistenza che Kathleen avesse mai visto. Quando aveva scoperto dai giornali la notizia della morte del padre di Margaret, Kathleen le aveva scritto una lunga lettera per esprimerle tutta la sua ammirazione.
Virgil aveva sempre amato guardare Kathleen che giocava. Il suo corpo slanciato sembrava volare sul campo. Il braccio destro si apriva in un’ampia traiettoria circolare ogni volta che colpiva la palla, un gesto che Kathleen talvolta accompagnava con un hah! gutturale. Poco prima della laurea, Kathleen aveva brevemente riflettuto sulla possibilità di giocare da professionista – c’era un reclutatore, Randy Roman, che le avrebbe offerto un contratto in qualsiasi momento – ma quella non sarebbe stata una vita facile, e Virgil era grato del fatto che il signor Roman fosse stato onesto a riguardo. Le aveva spiegato da subito che avrebbe significato allenamenti continui, dover viaggiare in giro per il paese – o, se avesse vinto abbastanza, in Australia – e alla fine Kathleen aveva declinato l’offerta. Si era laureata, aveva sposato Virgil e si era trasferita con lui a Pawtucket per mettere su famiglia.
[da Il colpo segreto di Jessica Anthoni, trad. di Dario Diofebi, Sur, 2025]