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Il concorso. Burocrazia, l’immane fatica del non-lavoro

Dici burocrazia e vedi subito dischiudersi le disperanti pagine di Kafka e Gogol, che di certi apparati burocratici hanno raccontato i paradossi, gli assurdi accanimenti, le umiliazioni. Una macchina perversa di cui non si conosce il volto del manovratore, ma solo le maschere dei suoi tanti manutentori che per essere tali non devono compiere alcuna azione, ma restare immobili. La burocrazia vive in funzione di sé stessa, si riproduce per partogenesi. Scriveva Kafka con sarcasmo che “la macchina amministrativa è stata descritta come un meraviglioso strumento per lavorare meno e che rende possibile a dieci persone di fare il lavoro di una sola”.

Caustico come gli illustri precedenti letterari appena richiamati, è il romanzo di Sara Mesa “Il concorso” (La Nuova Frontiera, traduzione di Elisa Tramontin), dove l’insensatezza della burocrazia – ancorché senza tempo – trova scena ai giorni nostri. A dovercisi confrontare è Sara Villalba, assunta a tempo determinato in un ufficio pubblico. Fin dal primo giorno in cui vi mette piede, avverte di essere entrata in un mondo parallelo alla vita reale. Tutto pare sfuggire a una qualsiasi ragionevolezza; arredi, luci, corridoi, rumori, le posture delle persone, sembrano un teatro dell’assurdo, l’austera organizzazione del nulla.

A Sara bastano pochi giorni per rendersi conto che la vera fatica di quel lavoro è non dover fare niente. Tant’è che quando riceve il primo apprezzabile stipendio rimane interdetta: “Compresi che una parte di me stava già accettando la mia situazione lì dentro. In un certo senso mi stavo appropriando di un pezzetto di terra, quell’angolo in mezzo al nulla che all’inizio mi era risultato tanto ostile e che ora era mio. Fu una rivelazione scomoda e sconcertante”.

Del resto un posto di lavoro fisso consente progetti e tranquillità, non a caso sta studiando per concorrere a un impiego stabile. Ma già con l’esperienza in atto constata come dentro sé siano in moto gli anticorpi, azioni di resistenza che, nelle inconcludenti ore d’ufficio, lì seduta in mezzo al nulla, la vedono dedicarsi alla scrittura, al disegno, alla poesia. Atti di sopravvivenza, appunto. Così da operare dei distinguo rispetto a quanto la circonda, quasi a voler puntualizzare: io sono qui per caso, sappiate che dovrei essere altrove, a fare cose ben diverse. E via di questo passo, Sara – non senza altrui stupori – giungerà al bivio delle scelte inequivocabili, uno di quei crocevia dove i cartelli avvertono: ne va della tua vita.

Con una scrittura serrata e mordace l’autrice sviluppa un racconto di forte magnetismo. Lascia intendere una ravvicinata conoscenza di quanto va narrando: ambienti, mentalità, la fauna che abita lo stupefacente mondo della burocrazia. Osservarlo è un utile punto di vista sull’umanità. A tratti pervaso dallo sconforto, appena mitigato da qualche sorriso che pure l’insensatezza suscita.

***

La scrivania la piazzarono in mezzo al nulla, in un punto di passaggio, senza finestre. Si sentiva un ronzio costante, chissà di quale apparecchio o cos’altro. Posai la borsa e la cartellina sopra la scrivania, il giaccone sullo schienale della sedia e mi sedetti ad aspettare proprio come mi aveva indicato l’usciere. Lì, nella penombra, si sentiva soltanto il ronzio, nulla più, e le sue minime variazioni ogni due o tre secondi, come un corpo asfissiato che riusciva a fatica a prendere una boccata d’aria. Davanti a me, la parete color crema; a sinistra, la curva dietro la quale c’era il corridoio che portava agli uffici; a destra, la porta a due ante con gli oblò da cui ero appena entrata. Era una fredda mattinata d’inverno, aveva da poco fatto giorno, la luce mi fece pensare alla consistenza porosa della cera. Ebbi la sensazione di essermi introdotta di soppiatto in un edificio disabitato. Di occupare quel posto per errore.

C’era un computer sopra la scrivania, con la sua tastiera e il suo mouse. Un computer non molto nuovo, ingiallito dal tempo, con adesivi aziendali e un’etichetta con un codice a barre. Dopo qualche minuto di indecisione, premetti il pulsante di accensione. Lo schermo si tinse di blu, poi di bianco e alla fine di un brillante verde mela. Sul desktop, una dopo l’altra, cominciarono ad apparire diverse icone. Spostai il mouse con cautela, ci cliccai sopra. Non portavano da nessuna parte oppure mi chiedevano password che non conoscevo. Spensi il computer, tirai fuori i fogli che mi ero portata e me li misi davanti, prima in una pila, tutti insieme, poi sparsi perché occupassero più spazio.

Il ronzio si era interrotto.

Aspettai.

Erano le otto passate quando sentii i primi impiegati.

Arrivavano alla spicciolata, come a scaglioni: alle otto e dieci, alle otto e venti, alle otto e mezza, alle nove, alle nove e venti. Saluti, schiarimenti di gola, colpetti di tosse, qualche risata, passi lenti e altri più svelti, mischiati. Tutti svoltavano dalla parte opposta. Io intuivo le loro sagome attraverso gli oblò, macchie indistinte che apparivano e poi si rimpicciolivano e scomparivano. Rimasi al mio posto in ascolto di tutte quelle persone che andavano a infilarsi chissà dove, chiedendomi perché nessuno si dirigesse verso gli uffici.

Mi alzai e percorsi il corridoio laterale con circospezione, come se stessi contravvenendo a una regola. Tre cubicoli a vetri, ciascuno dotato di una sola postazione, erano ancora al buio. In fondo c’era un bagno, o quello che sembrava essere un bagno, forse un piccolo ripostiglio, o forse niente, solo una porta cieca o d’emergenza. Sulle targhette accanto a ogni ufficio non erano indicati nomi, solo incarichi. caposezione. caposezione. caposezione. Tre capisezione. Ancora non se ne era presentato neanche uno. Senza aver concluso nulla, tornai alla mia scrivania.

Alle dieci e mezza la porta con gli oblò si aprì. Un uomo alto, piuttosto esile, con una valigetta, un cappotto lungo e l’aria di essere sommamente preso dai fatti suoi, passò davanti alla mia scrivania. Buongiorno, disse. Buongiorno, risposi. Quella creatura spettrale svoltò nel corridoio e andò verso gli uffici. Una luce si accese. Caposezione uno? Caposezione due? Caposezione tre? Il silenzio si ispessì al suo passaggio. Impossibile saperlo.

[…]

Avevo il computer e avevo il telefono. Avevo una scrivania grande, una cassettiera, una sedia da ufficio, una ciabatta multipresa. Finestre non ne avevo e, cosa più inquietante, istruzioni nemmeno. La pancia mi brontolò. Era mezzogiorno e un quarto e non avevo ancora fatto colazione. L’usciere mi aveva detto di aspettare, ma quanto era categorico quell’ordine? Non potevo trasgredirlo un attimo per andare a mangiare qualcosina?

L’usciere era stato preciso, se non perentorio. Dovevo aspettare la funzionaria giuridica. Non andarla a cercare. Non chiedere di lei. Non importunarla. Era una donna molto occupata che si riuniva quotidianamente con persone di ogni tipo e rango. Mandava avanti un sacco di lavoro, molto più di quanto ne potesse gestire una sola persona, ecco il motivo della mia esistenza in quel posto, in quel corridoio, a quella scrivania. Lei, la funzionaria giuridica, era stata informata che la presa di servizio della nuova leva era divenuta effettiva. Quella fu l’espressione usata dall’usciere, che alzò le sopracciglia per sottolinearla. Non disse lei sa che sei qui, ma è stata informata che la presa di servizio della nuova leva è divenuta effettiva, e quel modo di parlare risultava posticcio, perché poi aggiungeva parole come amore o gioia mia, con le sopracciglia di nuovo abbassate. La funzionaria giuridica sapeva perfettamente che la nuova leva aveva preso servizio, ripeté, e mi avrebbe ricevuto non appena avesse trovato un buchetto.

[…]

Alle due e mezza il caposezione numero due spense la luce del suo ufficio, mi passò davanti andando verso l’uscita e disse a domani. A domani, risposi intrigata. Qualcuno gli aveva spiegato che ero quella nuova e che sarei rimasta lì per un bel po’? Se ciò che l’usciere mi aveva detto era vero, la mia scrivania non era sempre stata lì, l’avevano messa appositamente per me. Cioè, il caposezione numero due aveva attraversato quello spazio vuoto giorno dopo giorno, senza incrociare niente e nessuno da chissà quanto tempo, fino alla mattina in cui era spuntata, come per generazione spontanea, una scrivania con una persona seduta, che ero io. Come unica reazione a quel cambiamento, si era limitato a pronunciare un salve e un arrivederci. A essere sincera, non mi ero mai sentita così dappoco.

Mezz’ora più tardi, dopo aver sentito i movimenti delle altre persone, i loro a domani e i loro ci vediamo, decisi che anche per me era giunto il momento di raccattare le mie cose e andarmene. Riposi i fogli nella cartellina, mi misi il giaccone e la borsa a tracolla. Il ronzio ricominciò. Mi guardai attorno come per dire ciao, assurdamente. Non c’era nessuno da salutare.

Per il resto della settimana, la funzionaria giuridica continuò a essere sempre così occupata da non potermi ricevere. Il mio posto era stato creato per alleggerirle la mole di lavoro ma, paradossalmente, la mia presenza ora comportava un ulteriore carico che non aveva ancora trovato il tempo di affrontare. Il mio lavoro, pertanto, consisteva nell’essere a disposizione qualora mi avesse chiamato. Rimanere all’erta, nel dubbio.

[da Il concorso di Sara Mesa, trad. di Elisa Tramontin, La Nuova Frontiera, 2025]

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