C’è una frase di Fernando Pessoa che racchiude perfettamente l’urgenza narrativa del romanzo “Il profumo del basilico riccio” (Edizioni Extempora) di Enzo Puglisi: “Benedetti siano gli istanti, i millimetri e le ombre delle piccole cose”. In essa si racchiudono due degli aspetti centrali di questo romanzo o meglio dei propulsori narrativi: gli istanti, che diventano “eterni” con il racconto e le ombre delle piccole cose, che trasformano i luoghi, i volti e le voci in una costante presenza quasi materica.
E dunque “Il profumo del basilico riccio” è un romanzo delle piccole cose che occupano grandi spazi della memoria e tratteggiano una identità emozionale e gestuale. In quest’ottica è altresì, come ben dettagliato nella prefazione di Francesco Ricci, un romanzo familiare e non solo, affermo con convinzione; trattasi anche di romanzo di formazione del giovane Vincenzo, voce narrante e sospesa nel tempo della storia e delle storie. Potremmo dire – addirittura – avvolta in un senso di spaesamento (Cfr. Prefazione p. 8); eppure, in questo romanzo si scorge perfettamente qualcosa di assimilabile al concetto di restanza, quel sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo che appartiene, ma è lontano, pur sempre da proteggere e rievocare col ricordo.*
Risiede qui l’urgenza scrittoria di Enzo Puglisi che ci regala pagine di intensa ed attenta descrizione narrativa e poetica in una struttura “prosimetrum” in cui alla prosa si accompagna la poesia a suggellare sentimenti ed emozioni, ed a ricercare quella “parola” che riporti alla memoria “l’ombra delle piccole cose” di pessoiana ispirazione.
Se l’elemento autobiografico è dunque centrale nella narrazione non è comunque riconducibile unicamente all’esperienza individuale; diventa una riflessione universale sulla natura del tempo e sui luoghi, su quell’odore di cose che diviene odore biologico (cfr. “entrava nelle narici e si propagava nei polmoni per raggiungere il cervello e inebriarlo di libertà, di spazi infiniti in cui sognare e volare lontano” p. 152), note olfattive che guidano la ricerca. Vincenzo lo dice chiaramente “Ci sono sue note olfattive che ancora oggi, in ogni mia ricerca di mediterraneità, si sono sensorialmente ed indelebilmente impadronite dei ricordi: le note del profumo del basilico e il profumo del mare” (pag. 33)
I luoghi, come le persone, sono elementi di un puzzle della memoria che si definiscono anch’essi narrativamente nel concreto; ed allora troviamo “la terrazza” come luogo fisico ma anche metafisico e la nonna Serafi’ e nonno Turi, custodi di valori e di “terra sicula”. L’incedere verbale, delicato ma non per questo meno tragico e malinconico, si inserisce in una descrizione meta sensoriale proustiana alla ricerca di un tempo che non è perduto ma è trasformato in sensazione permanente “Ho imparato a respirare la Sicilia attraverso la particolare percezione sensoriale…” (pag. 33).
È la Sicilia il luogo da cui nasce e in cui si riversa il desiderio di un’Itaca mai trovata, eppure sempre conservata nella memoria. Ogni paesaggio, ogni angolo, ogni spazio di terra e di mare, ogni “siculo sentire” è descritto da Enzo Puglisi con la cura e l’attenzione dei dettagli perché essi non possono “scollarsi” dal ricordo: ergo, come nella migliore tradizione letteraria siciliana, troviamo l’antico ideale dell’ostrica verghiano, un verismo di attaccamento alla terra, anche nei suoi aspetti più forti e contraddittori. L’uso dello strumento retorico stilistico dell’ironia nella descrizione del pranzo di Pasqua. Il cibo diviene collante di una “religione della famiglia e dell’ospite” cara al cuore del Sud Italia; e perché questo si percepisca, si senta, scorra nelle vene come linfa vitale, Enzo Puglisi “nel menu del pranzo di Pasqua” (p. 54) declina tutte le pietanze in dialetto, come nelle sequenze del maestro Andrea Camilleri. Vi è inoltre un aspetto antropologico notevole, consegnato a due immagini: il cibo, da una parte ed il ruolo delle donne nella gestione della cucina e dell’accoglienza che non è, badate bene, un elemento di secondo piano né dequalificante, al contrario, racchiude in sé la potenza di un’azione fondante nella cultura e nel pensiero meridionale, sin dalla Magna Grecia.
Costituisce da specchio temporale e da ponte fra una Sicilia che era ed un’Italia che diventa, l’elemento storico sociale della migrazione interna e del boom economico che si concretizzano narrativamente nella “Terra Negata” (p.245). Il viaggio verso Sud, a pag. 101-103, di cui consiglio la lettura attenta, è un esercizio descrittivo di notevole bellezza rievocativa; addirittura, uno strumento letterario di analisi storica.
Questo romanzo, di cui afferiscono alla mia personale emotività e memoria, il Sud, bello, colorato e comunque tavolozza di tonalità complesse e l’odore del mare, rilascia al lettore il desiderio di appartenere che è ricerca continua, anche di amore. Il viaggio va oltre la fisica naturale degli spostamenti, oltre “l’hic et nunc” che si contrae e diviene altrove.
E se dovessimo immaginarci un altrove, beh, le pagine di Enzo Puglisi suggeriscono quell’altrove. Per chi è partito, chi ha lasciato, chi è tornato e non si è trovato; chi, accade spesso, non ha avuto il coraggio di tornare. Ma la Letteratura ha un potere enorme per chi scrive e chi legge: si va, ma si resta anche. “Il profumo del basilico riccio” va letto per un esercizio di memoria che connota, sempre, le nostre identità.