Le tragedie – e già il termine suona indisponente, sovraccarico – sono impossibili da raccontare, perché il dolore è inenarrabile, rende inservibili le parole. L’indicibilità protegge dunque il dolore, al punto che, quando se ne tenti il racconto, violiamo un codice. Oltre ad esporsi al rischio, sotto il profilo meramente letterario, di produrre esiti del tutto incongrui (basta niente a far scadere la pena nel penoso). Pertanto il racconto del dolore richiede competenze che solo la sensibilità può fornire; e, nell’eventualità, il possesso di tante e tante parole, così da saperne adoperare pochissime.
Se il tema è ostico a tal punto, “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, romanzo d’esordio di Michele Ruol (edizioni Terrarossa), rappresenta un piccolo capolavoro, per come, pagine tanto disadorne, trasmettano empatia, fino a condurci nell’intimità di uno di quei drammi che definiremmo, giustappunto, inenarrabili.
Due genitori hanno perduto entrambi i figli in un incidente stradale. Da allora la vita (o ciò che può continuare ad essere chiamato vita) ha imposto un prima e un dopo. I protagonisti non hanno nome, hanno solo l’appellativo che li definiva nei loro ruoli e adesso nel loro tormento: Padre e Madre; i figli, Maggiore e Minore. Padre e Madre non riescono nemmeno a condividere la loro pena. Ciascuno ripiegato sul proprio rovello, come l’uno contro l’altro avversi: “In realtà il suo rancore verso di lui era solo la piccola parte di un rancore più vasto. Madre provava rancore per l’aria che respirava, rancore per ogni elemento contenuto nella loro casa. Padre era l’unico su cui poteva sfogarlo”.
Il racconto procede alternando i piani temporali di quel prima e dopo che ha crudelmente segnato l’esistenza di questa famiglia. Ma – è qui l’escamotage narrativo – persone, circostanze, ricordi, sentimenti vengono raccontati per interposte personificazioni; attraverso gli oggetti, quelli contenuti nei due microcosmi familiari dove si consuma lo struggimento dell’assenza: Casa e Automobile. Quasi che un compassionevole notaio fosse stato convocato a stilare l’inventario della consolazione.
Nella fattispecie un inventario di 99 oggetti, che, a loro modo, mantengono in vita il ‘prima’, provano a compensare il vuoto del ‘dopo’: “Quanto sarebbe bello, pensava Madre a volte, quanto sarebbe bello se bastasse riparare l’orologio per permettere al tempo di riprendere a scorrere. O girare le lancette all’indietro, tornare al pomeriggio, quando i ragazzi erano ancora a casa”.
Sono gli oggetti ad evocare ciò che è stato, fatto, detto e – ancora più acuto nel rimpianto – quanto non si è riusciti a dire. Ma non solo. Padre e Madre vogliono conoscere anche ciò che di Maggiore e Minore potevano non sapere. Cercano allora tra le amicizie dei figli chissà quali rivelazioni e quale conforto, pur di smentire a sé stessi l’ineludibile assenza.
Il romanzo di Michele Ruol è una storia sulla perdita e sull’oltraggio che la vita compie nei confronti di quanti la perdita subiscono. Costretti al paradosso di dover vedere, giorno dopo giorno, che tutto, a cominciare da loro stessi, continua a esistere-nonostante. Così può accadere di mettersi a compilare inventari, per racimolare le poche cose necessarie alla sopravvivenza.
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1. cornice in argento, 15×22 cm
La foto dei ragazzi sul tavolino nell’ingresso è la stessa che avevano usato per la lapide.
È stata scattata dopo un pranzo di Natale e li ritrae, il volto arrossato e la camicia sbottonata, mentre Maggiore prende sottobraccio Minore. I due fratelli si guardano, anticipando di un attimo il momento in cui scoppieranno a ridere.
Dopo quella foto, non ce ne sono state altre, o quanto meno non di loro due e basta. Qualche istantanea in posa – Maggiore in piedi, Minore in ginocchio – con il resto della squadra a un torneo organizzato dalla parrocchia, o tutti in fila con gli amici, la torta di compleanno sul tavolo. Decine di autoscatti con smorfie, occhiali a specchio, segni dell’abbronzatura, boccali di birra alzati.
Ma altre foto che meritassero di essere stampate e messe in una cornice d’argento, quelle no.
2. telefono fisso, marca Sirio, color avorio
Madre, quando parlava al telefono, era abituata a prendere appunti che poi gettava. A volte erano nomi – di persone, di vie, di cose da comprare al supermercato. Oppure date, orari, scarabocchi.
Era andata in pescheria e aveva cucinato tutta la mattina. Minore aveva telefonato per avvertire che non sarebbe tornato a pranzo. Lei gli aveva detto che non poteva chiamare all’ultimo quando ormai era tutto pronto, che faceva così ogni volta, che non gliene fregava di nessuno se non di sé stesso. Parlava incidendo sui post-it spirali che erano cicloni.
Dall’altra parte della cornetta il silenzio di una pianura spazzata dal vento. Era stato il loro ultimo litigio.
3. mensola stile rococò
Il portoncino blindato è la porta. Tutto l’ingresso, fino al tavolino del telefono, l’area piccola. Il dischetto, una venatura scura sul marmo.
Sfidarsi a rigori era vietato, per questo era uno dei loro giochi preferiti. C’era solo una regola: uno calcia, l’altro para, e si fa a cambio quando si segna.
Maggiore era in porta, accovacciato, pronto a buttarsi. Sapeva che Minore avrebbe calciato lì, rasoterra. Era il suo colpo migliore, ma gliene aveva già parati tre.
Minore lo aveva guardato negli occhi. Aveva guardato la palla. Aveva guardato il sette, come a dire, ora te la metto lì – era un bluff, avrebbe calciato rasoterra.
Il portoncino si era aperto, era entrato Padre. Aveva lasciato la sua ventiquattrore sul tavolino e, senza neanche togliersi la giacca, era corso verso Minore. Lo aveva dribblato, si era girato, aveva calciato: la palla era rimbalzata sul sette della porta, sul muro, sulla mensola sopra il portaombrelli.
Si erano sommati l’esultanza per il gol, lo scroscio della bomboniera del loro matrimonio caduta dalla mensola, le urla di Madre che stava preparando la cena.
Quante volte vi devo dire che non si gioca a calcio in casa!
Spalancata la porta, si era trovata davanti Maggiore, Minore e Padre – quest’ultimo con ancora il cappotto e il pallone sottobraccio.
Era rimasta a guardarli interdetta; poi era tornata a chiudersi in cucina.
4. fermaporta in vetro di Murano
A Madre capitava di andare verso l’ingresso pensando che fossero loro.
Dalla finestra aperta venivano rumori di voci, e si aspettava, pochi minuti più tardi, di sentirle scoppiare mentre entravano in casa. Stavano arrivando, li vedeva quasi che sbattevano il portoncino blindato sul fermaporta – una palla di vetro fumé.
Non si saluta neanche?, gli avrebbe urlato continuando ad affettare la cipolla sul tagliere.
Andando in bagno si era affacciata un attimo nelle loro camere e si era stupita di trovarle vuote. Il letto, la sedia davanti al computer contenevano ancora le loro forme: come se si fossero appena alzati.
Madre aveva spadellato la pasta, solo a quel punto si era accorta di aver apparecchiato per quattro.
Aveva lasciato lì il pranzo, ed era tornata in terrazza a spazzare e strofinare via la cenere piovuta ormai quasi un mese prima.
5. bomboniera di matrimonio in cristallo
Sul tavolino, accanto al telefono, c’è la bomboniera di Madre e Padre che prima stava sulla mensola. È un piccolo mappamondo, simbolo di quanto amassero viaggiare, con crepe che disegnano i confini di nuovi continenti.
L’anno seguente al loro matrimonio era nato Maggiore.
[da Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol, Terrarossa, 2024]