“Io che ti ho voluto così bene” è il titolo emblematico del romanzo di Roberta Recchia (Rizzoli). Ed è emblematico nella sua semplicità, quasi spiazzante, ma è anche l’assunto complesso che la Recchia, con magistrale abilità narrativa, dimostra pagina per pagina in questo romanzo di “trasformazione”.
Si, perché se da una parte esso racconta la formazione del piccolo Luca Nardulli che, alle soglie dei suoi quindici anni, si trova ad elaborare qualcosa di più grande di lui (inaspettato, come spesso accade agli adolescenti), dall’altra si trasforma e trasforma anche chi gli è accanto.
Una trasformazione che nasce da un dolore “inaspettato”, appunto, e da una serie di circostanze che, con effetto domino, travolgono l’innocenza di Luca e le vite che gli girano intorno. Un giro di vite, un carosello di eventi di cui, lui, è l’incolpevole causus belli.
Perché Luchi’ (come veniva chiamato da tutti) non ha colpa di ciò che lo allontana da casa, dagli affetti, dagli amori ma porta con sé una “macchia” funesta; quella che, mitologicamente parlando, si trasferisce di padre in figlio ed oltre.
Ed è questo – sostanzialmente – il focus del romanzo; tutta la narrazione si incardina nell’ “evento tragico” che porta con sé un intero mondo, fatto di spensieratezza estiva, di sogni proibiti, di canzoni al juke box, di pedalate veloci e cariche di attesa, di paesi assolati nell’estate di ogni tempo. Sempre uguale l’estate, ricca di promesse e poi, d’improvviso, finisce e non tornano più. Accade a Luchi’, Mizio, Tommaso, Lilia, Betta, Umberto, Mara, Caro’, Emilia, Flavia ed altri.
Ognuno di loro “ha voluto bene” – così bene – ed è in virtù di questo bene che ha agito ed ha deciso dove “andare”, come “finire”. Nel lungo inverno della consapevolezza, mi viene da dire, si materializza la rassegnazione, prima e la rinascita, dopo, la trasformazione.
Luchi’, che ha una sensibilità silenziosa ma acuta, si lascia attraversare dal dolore, dalla morte di una passata stagione, di un sogno d’amore; si avvicina a chi lo accoglie con gratitudine e tace, anche quando viene accusato di aver “travolto” altre vite nella “sua, macchiata”. Tace nella ricerca di un’altra strada per essere felice.
Una strada che passa prima dall’accettazione della distanza, dalle persone e dai luoghi e poi dalla consapevolezza che ognuno di coloro che ha gravitato intorno “all’inaspettato” ha scelto, infine, come andare avanti e come finire. Luchi’ dirà allo zio Umberto “Se n’è andato come voleva” riferendosi al padre in un passo cruciale alla fine del romanzo (cfr. p.256).
Perché è convinto, come un eroe greco, che “in nessun modo la vita potesse essere semplice, che in nessun modo fosse possibile evitare delusioni, errori, dolori. Ma dalla sofferenza si poteva guarire, questo sì.” (Cfr. p. 339). Con ostinazione.
Roberta Recchia è riuscita ad affrontare diverse tematiche legate all’adolescenza, anche traumatiche, delittuose, senza defraudare mai i giovani della loro forza e percezione della realtà: basta pensare al personaggio di Flavia che non si arrende e sa attendere, per amore.
Ed anche il mondo degli adulti è tratteggiato nella sua complessità, nei rapporti fra pari e con gli adolescenti. Uno spaccato di vite che non ci lascia senza rimandi personali.
Il bene e l’amore muovono l’azione narrativa, non vi è dubbio; nella scena finale del romanzo, a tavola, l’immagine del cocomero diviso in quattro, dono simbolico, di un passato malinconico si, ma anche di un presente che non si arrende, ne è la dimostrazione figurata. “Io che ti ho voluto così bene” è un viaggio nelle stagioni della vita, non prive di dolori, ma “girasoli” che, con ostinazione, ricercano la luce.