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La bambolaia. L’amore, anzi l’ossessione di Oskar Kokoschka per Alma Schindler

Una vicenda vera, tre personaggi realmente esistiti. Oskar Kokoschka, artista di tormentata indole (si veda la sua pittura), spesso perso nei meandri più oscuri della psiche. Alma Schindler, donna colta e affascinante, musa di artisti, seduttrice di geni, plurisposata (il primo dei cinque mariti fu Gustav Mahler), amante seriale. Hermine Moos, giovane pittrice-artigiana, creatrice di bambole. A ricordare come le esistenze dei tre si incrociarono è ora il romanzo “La bambolaia” di Giuseppina Manin (La nave di Teseo).

Siamo a Monaco di Baviera nel 1918. Oskar Kokoschka è stato lasciato da Alma Schindler. Non riesce a farsene una ragione. Considera intollerabile dover rinunciare a quella donna che è passione e vita. Bella così come l’ha raffigurata nel dipinto “La sposa del vento”, con i capelli sciolti, la testa posata sulla spalla dell’amante. Indubbiamente è stato un rapporto travagliato: lui, carattere introverso, modi rozzi (era detto ‘il selvaggio’); lei, irrequieta, volubile, corteggiata e corteggiatrice. Per Oskar, un amore malato, un’ossessione. Non può perdere l’oggetto del desiderio, e nel delirio più assoluto pensa a come surrogarne il possesso. Si rivolge a Hermine Moos, la bambolaia di comprovata maestria, affinché gli realizzi una bambola a grandezza naturale, in tutto identica ad Alma.

Nella sagace e coinvolgente narrazione di Giuseppina Manin, leggiamo: «“Hermine, rendimi Alma!” la implora avvinghiandosi alle sue ginocchia con quelle mani da taglialegna. “Se quella vera non posso più averla, tu puoi ridarmi la sua immagine, evocare la sua bellezza. La copia, se nasce da un’arte come la tua, può sopperire all’originale, suscitare emozioni smarrite, lenire il lancinante vuoto dell’anima. Hermine, rifai Alma per me, costruisci il suo doppio, cuci le sue braccia, le sue gambe, punto su punto, rivestile delle stoffe più fini, modella il volto a sua immagine e somiglianza».

Sul momento Hermine non intende farsi complice di quella perversione. Poi, arresa alle suppliche del cliente, accetta la committenza. Seguiranno mesi di snervante lavoro per soddisfare i desiderata di Kokoschka che l’assilla, senza requie, con disegni, dettagli anatomici, richieste raccapriccianti. Come quando le scrive: “[…] La prego di prestare la massima attenzione alle dimensioni della testa e del collo, della cassa toracica, del sedere e degli arti. […] Per favore permetta al mio senso del tatto di trarre piacere da quelle zone dove strati di grasso o muscoli si fondono con una distesa di pelle compatta. Per il primo strato all’interno, la prego di usare morbido e ricciuto crine di cavallo […] poi sopra quello strato, un altro fatto di sacchetti imbottiti di ovatta per il posteriore e i seni. […] La bocca potrà essere aperta? Ci saranno i denti e la lingua dentro? Lo spero tanto. […] E non permetta punti di sutura dove pensa che mi farebbero male e mi farebbe ricordare che il feticcio è uno straccio miserabile!”.

Alla fine dell’impresa – quasi una gravidanza, con tanto di depressione post partum – Hermine sacrificherà anche i propri capelli, per dare alla creatura-fantoccio un ulteriore tocco d’avvenenza. Ma Kokoschka dovrà prendere atto che i suoi timori erano fondati. La bambola è un miserevole assemblaggio di stracci. Ciò nonostante prende a trattarla con ogni premura. La surreale recita non regge, non lenisce certo la perdita, la gelosia, l’indomabile fiamma del desiderio. Anzi, ancora di più accresce l’esasperazione, fino all’epilogo dove tutti pagano pegno a discapito del proprio equilibrio psichico.

Con un bel piglio narrativo, con la perizia di chi sa scandagliare gli umani paradossi, Giuseppina Manin mette in pagina la devastazione del desiderio, i suoi esiti più estremi e drammatici. Sullo sfondo, la disastrata Germania del primo dopoguerra e le avvisaglie della nuova tragedia che si chiamerà Seconda guerra mondiale.

***

Velour. È scritto proprio così. Velour. E che sia color carne. In alternativa, indica perentorio lo scrivente, seta finissima. Come da campione, tonalità cipria. Ma che sia impalpabile. Il signor K., meglio fermarsi all’iniziale, tutte quelle kappa le si inceppano in gola, il signor K. dev’essere un po’ bislacco. Le sue richieste non stanno né in cielo né in terra. Evidentemente non sa dove vive, né ha idea che di questi tempi già si fatica a trovare il pane, si litiga per un pezzo di formaggio, il burro è un lusso per pochi… Hermine non crede ai suoi occhi, rigira il foglio tra le mani, rilegge ad alta voce alcuni passaggi quasi a volersi accertare di aver capito bene. Del resto è vero, il suo lavoro ormai è diventato impossibile, scovare qualche metro di cotone è un’impresa, per i rocchetti deve girare mezza Monaco. Figurarsi seta e velour. Quando ha detto di sì a quello strano K. è stata una pazza. Una pazza che ha accettato la proposta di un pazzo. Ma quando lui le ha preso le mani fra le sue e le si è inginocchiato davanti – il grande Oskar ai suoi piedi! – che altro poteva fare?

“Quei suoi occhi, così trasparenti e spiritati, dovevano mettermi in guardia. Invece ci sono rimasta impigliata dentro. Incapace di staccare i miei dai suoi.”

“Signorina Moos, solo lei può salvarmi.”

Quella voce. Profonda, imperiosa, sempre sul punto di spezzarsi. “Mi ha chiesto la luna. E io, io gli ho detto sì. Senza ragionare, senza pensare a quanto sarei andata incontro. Hermine, povera sciocca Hermine, in che guaio ti sei cacciata. O meglio, in che guaio ci siamo cacciate tutte e due, vero Alma?” E lo scheletro, ritto in un angolo, seminascosto da una tendina di mussola a fiori, scopre la mandibola aperta in un ghigno vuoto.

Come una mosca intrappolata dietro un vetro, si muove senza posa intorno al massiccio tavolo di legno che occupa quasi per intero la stanza laboratorio. La più grande e soleggiata dell’appartamento dove Hermine Moos vive con la famiglia, il padre Max, la madre Sofie Juliane, la sorella Henriette. Alloggio spazioso nel cuore di Schwabing, il quartiere degli artisti e dei ribelli. Nei suoi caffè, parchi, piazzette alberate si possono incontrare pittori come Klee e Kandinsky, de Chirico e Savinio, scrittori come Wedekind, Rilke, Brecht. E i fratelli Mann, Thomas e Heinrich, sempre ad accapigliarsi perché schierati su fronti diversi. I litigi tra i due sono leggendari, il dibattito dilaga nelle taverne dove le mura, intrise dell’aspro odore della birra, serbano memoria di invettive e alterchi di precedenti rivoluzionari bevitori, il giovane Lenin, il giovane Trotskij, a lungo lì di casa.

In quella Montmartre meno spensierata e più facinorosa di quella parigina, i Moos si sono trasferiti da un anno, settembre 1917, visto che entrambe le loro ragazze hanno a che fare con il mondo dell’arte. Hermine è pittrice di una certa fama, apprezzata per le sue marine e per un ritratto di Ludwig III di Baviera che, finito a un’asta di guerra della Croce Rossa, è stato battuto a una cifra di tutto riguardo.

Ma, pur se abile con pennelli e colori, la vera vocazione di Hermine sono le bambole. Intrecciando all’uncinetto fili di ferro e fili di lana, le sue dita forti e sottili creano curiose figurette femminili che uniscono al fascino innocente del giocattolo quello conturbante della marionetta. Quanto a sua sorella, Henriette, detta Henny, di due anni più giovane ma forse meno graziosa di Hermine, dopo la laurea in filosofia dice di volersi dedicare alla scrittura.

A tutti comunque la casa di Kunigundenstrasse è parsa subito perfetta. Un palazzotto bianco di sobria eleganza e gusto Art Nouveau, facciata scandita da un bovindo, un piccolo giardino antistante il portone. Buon vicinato, gli inquilini sono in gran parte agiati borghesi, commercianti e intellettuali ebrei. Dettaglio non trascurabile, che a Max Moshe e Sophie Juliane ha dato un immediato senso di appartenenza. Dei tre piani, i Moos occupano quello rialzato, meno prestigioso rispetto ai cosiddetti “nobili”, ma anche meno costoso. E comunque piacevole, viste le ampie stanze, i soffitti decorati a stucco, i parquet di rovere a spina di pesce. Tra tutte, lo stanzone con le finestre più grandi, il più luminoso di un appartamento che, unico difetto, non lo è troppo, viene assegnato di concerto a Hermine. Che, lavorando con aghi e filo, perline e bottoni, tutto formato mignon, della luce ha bisogno estremo.

Le sue creature, quelle bamboline un po’ buffe e un po’ infantili, riscuotono un successo inatteso. Esposte nel giugno 1918 all’Hohenzollernhaus di Berlino, subito dopo vengono richieste anche dal Kunstsalon Richter di Dresda, spazio d’arte prestigioso, riferimento di artisti come Grosz, Klee, Kokoschka.

 

[da La bambolaia di Giuseppina Manin, La nave di Teseo, 2025]

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