Con il romanzo “L’amica delle lucertole” (La nave di Teseo), Salvatore Niffoi prosegue il suo inesauribile racconto di storie barbaricine, di una terra – quella della Barbagia, appunto – dove natura, pietre, donne, uomini portano dentro una memoria di secoli, un carattere aspro e struggente che in un tutt’uno è paesaggio di cose e persone. Una storia di tante storie (vere, immaginate, comunque credibili) che Niffoi, abile affabulatore, inanella restituendoci universi spesso crudeli e che nemmeno la modernità è riuscita a estinguere fino in fondo. Realtà di sentimenti distorti, drastici; di gente tenace nel bene e nel male. Universi che sono già racconti. Basta rievocarli, poi – dice l’autore – quelle storie mettono “ali di carta e una sera d’inverno sono volate dentro queste pagine”.
In tal caso le pagine sono quelle che raccontano di Remedia, ventenne di bellezza statuaria, sagace e determinata, che dopo diversi anni (siamo nel 1970) fa ritorno in Sardegna, nel paese natale di Corunas, “duemilacinquecento anime sparpagliate a caso dalla malasorte”, decisa a voler conoscere la verità su chi sia il suo vero padre. Era accaduto, infatti, che Martine Urriache, l’uomo che a Remedia era stato padre, le avesse confidato prima di morire a soli cinquant’anni, proprio sull’affanno degli ultimi respiri, due conturbanti verità: sua madre, Celestina Bonosia, non era morta partorendola, ma suicida, quando il marito l’aveva scoperta fedifraga, amante del pittore Menelau Lughentis, un anarchico fuggito dalla Spagna del dittatore Franco e rifugiato in Sardegna insieme alla moglie Teresa Patzola, cantante d’opera. Quindi – erano state le ultime flebili parole di Martine sul letto di morte – esisteva il dubbio fondato che Remedia fosse figlia di Menelau.
E questo occorreva ora scoprire nel ritrovato paese in cui, a distanza di anni, poco era cambiato e nessuno pareva disposto a svegliare dal torpore i fantasmi del passato, e con essi i rimorsi, soprusi, atrocità, cattive coscienze. Remedia, peraltro, coinvolge nelle indagini anche Milzino, figlio di Menelau, suo coetaneo (nati nello stesso giorno) e verso il quale, da sempre, aveva provato teneri sentimenti.
E’ una vicenda cruda, che evoca un mondo per niente da rimpiangere. Ma è pure una storia d’amore e di libertà, se pur pagati a prezzo di tanto dolore. Una storia resa da Niffoi attraverso un’architettura del testo ormai collaudata, in cui l’alternanza di lingua italiana a dialetto producono un’euritmia quasi sempre perfetta, un novellare fluente e incantatore.
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A casa di Teresa Patzola e Menelau Lughentis l’orologio del tempo è impazzito. Le ore vanno avanti e i minuti tornano indietro. Le lancette hanno facce di uomini che sanno di velluto e tabacco, di donne che profumano di garofani e caffè, di veri morti e finti vivi. Vanno e vengono, le ore e i minuti, si mordono la coda come lucertole, giocano a saltare come locuste in un campo di grano, tra le lenzuola di pillipoi che ha ricamato il fantasma di Celestina Bonosia per far sentire agli ospiti anche d’inverno il caldo dell’estate. A casa di Teresa e Menelau, nel paese di Corunas, si ascoltano storie e se ne raccontano, si mischia il cannonau con lo stramonio, mentre lei ogni tanto canta, batte le ciglia e sorride come solo sanno fare gli angeli veri e le bambole di pezza. A casa di Teresa e Menelau gli ospiti hanno conosciuto la vita solo attraverso la porta girevole della veglia e del sonno. Remedia e Milzino hanno gli occhi sbarriolati dalla paura, grumi di ricordi nascosti dentro due mani che si stringono. Remedia e Milzino nascondono nel cuore pioggia a trumughine che tutto lava, dolore condiviso dentro ridotte di vino, biscotti dipinti, amori nascosti tra le pietre, lucertole che non si lasciano mai trovare, sorrisi affilati dalla curiosità e alitate che salgono da interiora che andrebbero sciacquate spesso in varechina. Remedia di notte muove solo le dita, accende la luce e solleva il cuscino per prendere penna e quaderno. Mentre Milzino le riposa accanto, veste di parole le ombre che si spalmano sui muri come adesivi di cera. Remedia sa che i fantasmi che abitano la sua stanza sono fatti di carne e fango, e lasciano per terra gocce di sangue e polvere di vescia secca. A casa di Teresa Patzola e Menelau Lughentis la Pasqua, il Natale e le altre feste grandi, le vivevano a modo loro, recitando per l’occasione nella grande cucina illuminata soltanto dall’occhio gelatinoso di un piccolo riflettore che tagliava il fondale nero della scena come uno spiedo rovente. Tutti a Corunas pensavano che la loro abitazione nel vicinato di Sas Monzas fosse un covo di maccos de prennere, dediti alla musica, alla pittura, alla poesia, al teatro, al libero amore, alla perdizione insomma. Il vescovo di Noroddile, a quelli che la frequentavano e ai proprietari forestieri, se ne avesse avuto la possibilità li avrebbe bruciati vivi. Quando le beghine locali gli avevano riferito di strani riti esoterici, e soprattutto di qualche messa in scena teatrale blasfema, per poco non gli scappò una bestemmia. Che poi di blasfemo in quella casa non accadesse proprio niente, lo possono testimoniare anche gli angeli del cielo che ogni sera, a mezzanotte in punto, si appollaiavano sui rami dei lecci della collina di Sos Vicarios e cominciavano a suonare le trombe per loro. E se Dio avesse deciso di mandarci gli angeli avrebbe voluto dire che la cosa doveva andare bene anche al vescovo di Noroddile, al parroco di Corunas e a tutte le malelingue che facevano gli scongiuri quando incontravano Teresa, Menelau e Milzino.
A casa di Remedia e Milzino nel vicinato di Sas Monzas, le storie di Teresa, Martine, Pauledda, Simeone, Erricu, Bacico, Nastasiu e Costantino Malupasu hanno messo ali di carta e una sera d’inverno sono volate dentro queste pagine. Buona lettura.
Remedia Urriache era andata via da Corunas dopo la grande nevicata del 1956, quella che aveva costretto uomini e bestie a starsene rinchiusi dentro casa sotto una coperta di neve alta quasi due metri. Per arrivare dal vicinato di Sa Filumena a quello di Prunizza, dove i pastori e i contadini avevano ricoverato il bestiame insieme a una provvista di foraggio, gli abitanti in forze avevano dovuto scavare una galleria lunga seicento metri. Fino alla scomparsa del padre Martine, nella primavera del 1970, le avevano sempre detto che la madre, Celestina Bonosia, era morta di parto mentre la metteva al mondo. Dal 1956 avevano vissuto insieme a Noroddile, dove Martine Urriache lavorava come impiegato amministrativo all’ufficio del catasto. Per la piccola Remedia aveva dovuto fare da padre e da madre fino al momento in cui non sentì il suo cuore gonfiarsi al punto di scoppiargli nel petto. Il malore improvviso gli diede appena il tempo di confessare alla figlia la verità sulla scomparsa della madre. Martine Urriache lo fece con gli occhi già chiusi, quando ormai non aveva più il coraggio di mentire di fronte alla morte. “Anima mia adorata, devi sapere che tua madre non è morta mentre ti partoriva ma si è svenata dopo che avevo scoperto che aveva un amante. Forse tu sei la figlia del pittore Menelau Lughentis, questo lei mi ha fatto sempre pensare. Se può servirti d’aiuto, per capire la tua storia e ricostruire come andarono veramente le cose all’epoca, devi fare una cosa molto importante. Quando tornerai a Corunas, vai in camera nostra, apri il cassettone antico che c’è vicino al letto e prendi lo scialle di seta ricamato che fu di tua madre.” Martine Urriache, dopo quelle ultime parole, fece appena in tempo a strapparsi dal collo una vecchia chiave che teneva appesa alla catenina d’oro del battesimo. Poi rimase così, con la chiave stretta in una mano e la bocca aperta in cerca di una boccata d’aria che non arrivò mai. […] Remedia Urriache rimase così per sempre orfana di madre e di padre. Era l’alba del 23 di maggio del 1970, giorno di San Desiderio. Per trovare la forza di affrontare la vita che le era arrivata addosso come il calcio di un mulo, Remedia aprì la finestra e fece entrare in casa le prime manciate di sole. Il cielo era un sudario di luce trasparente che ovattava il canto delle poiane che volavano in cerchio sopra il monte del Redentore.
[da L’amica delle lucertole di Salvatore Niffoi, La nave di Teseo, 2025]