Andrea Bajani, con il romanzo “L’anniversario” (Feltrinelli), è il primo dei cinque finalisti che si contenderanno il Premio Strega 2025. Nei giorni scorsi, già è risultato vincitore dello Strega Giovani, assegnato da una giuria di ragazze e ragazzi tra i 16 e i 18 anni, studenti di scuole secondarie. Fa riflettere come una platea di giovani, non immaginabili alle prese con le angherie di anacronistici (?) pater familias, siano stati presi dalla lettura di questo libro in cui si racconta di un padre despota che “attraverso la violenza pretendeva amore”, di una madre succube e fattasi ‘nulla’, di un figlio che lascia le opprimenti mura domestiche recidendo ogni legame. Patriarcato sembrerebbe roba antica, però sappiamo come gli venga facile farsi moderno.
Il romanzo (autobiografico) ha fatto dire a Emmanuel Carrère: “Ci si può liberare dai propri genitori? Dal male che ci hanno fatto? Senza ritorno e senza appello? È una domanda scandalosa. Andrea Bajani la affronta da scrittore, in un libro scandalosamente calmo”.
Ed è proprio questa sfrontata pacatezza, priva di rivalsa o sussulti emotivi, a produrre un risultato letterario di grande effetto. Il racconto procede con freddezza chirurgica, e anche laddove le parole possano sortire struggimento, sembrano comunque concepite nelle stanze dei pensieri pacificati. È una scelta stilistica, a garanzia di una scrittura che non intende farsi prevaricare dalle sue ragioni.
Ma veniamo al racconto. Sono dieci anni – un anniversario di liberazione – che il protagonista ha interrotto ogni rapporto con la famiglia d’origine. Ha cambiato casa, numero di telefono, ripudiato i legami di sangue. Lontano per sempre da quell’inferno domestico (la sorella lo aveva preceduto) dove il padre risolveva le proprie frustrazioni imponendo uno stato di violenza, esplicita o subdola che fosse. In un siffatto contesto, la madre era vittima e complice. Per un sottile meccanismo psicologico, pur non temendo il marito, lo accondiscendeva: “Il fatto che mia madre non avesse paura di mio padre fu in fondo il più grande tra i fraintendimenti della loro relazione, o – ancora una volta – l’indicibile segreto. E forse anche la disgrazia maggiore che travolse tutta la famiglia. Mio padre aveva infatti fondato la sua gestione del potere sull’intimidazione, sull’allusione cioè a scenari violenti che si sarebbero verificati se il nostro agire non fosse stato conforme alle sue volontà”.
Quando il figlio dice basta a tutto questo, il taglio è radicale. “Tornerai a trovarci?”, chiede la madre sul pianerottolo di casa, consapevole di ciò che stava realmente accadendo: “Dopo tanti anni passati a sottrarsi, a non esistere né per sé né per i figli, a pulire, servire, obbedire al marito in casa e nel letto a eseguire il poco o niente che mio padre si aspettava o pretendeva da lei, finì con un gesto da madre. Sentì ciò che dentro suo figlio era già successo senza che lui lo sapesse”.
È una storia dissezionata con la lucidità che deriva dal trascorrere del tempo (“i dieci anni migliori della mia vita”, afferma il protagonista). Una dolorosa vicenda di affetti negati, libertà inibite, abiura delle proprie radici. Può dirsi dunque romanzo scandaloso, laddove porti a pensare che per vivere la propria vita occorra salvarla da chi ce l’ha data.
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L’ultima volta che ho visto mia madre, mi ha accompagnato alla porta di casa per salutarmi. Dopo di che ha aspettato di vedermi sparire nell’imbuto delle scale prima di chiuderla. Mia madre non è mai stata da gesti di commiato, principalmente perché era sopraffatta da una forma di timidezza molto prossima alla negazione di sé. Il che, nel concreto, le rendeva impossibile ogni retorica: in nessun modo avrebbe potuto trasformare in una messa in scena, sia pure temporanea, ciò che lei stessa considerava tanto marginale. Per questa stessa ragione, credo, non si riconosceva il diritto di certificare l’inizio o la fine di nulla. Era alle spalle di mio padre quando la porta si apriva, ed era alle spalle di mio padre quando, al termine di ogni mia visita, il battente li inghiottiva dentro casa.
Eppure quel giorno fu lei a salutarmi per ultima, sola oltre la soglia, all’imbocco delle scale. Più che congedarmi, in qualche modo mi seguì. Con la visuale degli anni che sono passati da allora, mi verrebbe da dire che non le era possibile lasciarmi andare. È un dato di fatto che mentre io guadagnavo l’uscita retrocedendo, coprendo ogni passo con parole fumogene, mia madre avanzava con analogo passo. Vista con gli occhiali della scrittura, la scena assume le sembianze di una danza, un piede di uomo all’indietro e uno di donna a rincalzo, un altro passo di figlio, ancora uno di madre, fino all’uscita.
Le ultime parole che ho sentito pronunciare a mia madre non sono state un’affermazione ma una domanda. Il che, ancora una volta, era in netto contrasto con un’attitudine all’accettazione più che alla richiesta, alla sottomissione più che alla pretesa, al dare conto più che chiederne agli altri.
“Tornerai a trovarci?” mi ha chiesto avanzando verso di me mentre io mi sfilavo da casa. Credo mi abbia guardato negli occhi, ma è più una supposizione che un ricordo appannato, visto che invece io non la guardavo.
La sua domanda era del tutto incongrua, non c’era alcuna ragione per farla. Regolarmente, all’incirca una volta ogni due settimane, guidavo per settanta chilometri per trascorrere alcune ore con i miei genitori, solitamente a cavallo del pranzo. Finito di mangiare, dopo il caffè, riprendevo la macchina e tornavo a Torino. Lo avevo fatto per molto tempo, da quando me n’ero andato di casa a vent’anni usando il pretesto consueto dell’università. Di fronte a quella domanda, avevo quarantun anni. Ciò significa che erano ventun anni che compivo quel gesto di andarli a trovare con una cadenza che non potrebbe non apparire di routine. Non c’era quindi alcuna ragione per mettere in forse il fatto che, dopo quel giorno, si sarebbe ripetuto ancora e ancora e per sempre. Per di più io ero un figlio e loro le persone che mi avevano dato la vita, il che era condizione sufficiente per non nutrire alcun dubbio.
Aggiungerei che non solo la domanda era palesemente incongrua dal punto di vista della contingenza, ma neppure io me l’ero mai posta, né avevo mai formulato con me stesso un qualche pensiero al riguardo. “Tornerai a trovarci?” mi chiese. A quella domanda non c’è mai stata una risposta. Il “Ma certo” che ho lasciato sul pianerottolo fu pronunciato soltanto perché succedesse qualcosa, perché mia madre mollasse la presa e io potessi infilare le scale in discesa. Non era una risposta, semplicemente perché quella domanda, posta da una mamma a un figlio, non poteva essere pronunciata.
Eppure mia madre la fece, e fu per istinto. Dopo tanti anni passati a sottrarsi, a non esistere né per sé né per i figli, a pulire, servire, obbedire al marito in casa e nel letto, a eseguire il poco o niente che mio padre si aspettava o pretendeva da lei, finì con un gesto da madre. Sentì ciò che dentro suo figlio era già successo senza che lui lo sapesse.
Dieci anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.