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Le Ombre: una drammaturgia del potere e della vendetta

“Le Ombre” (Marsilio) di Alessandro Zaccuri è un romanzo dalla bellezza noir. E se ci fosse qualche dubbio sull’esistenza di un “fascino nero”, beh, in “Le Ombre”, il dubbio si scioglie. In questa drammaturgia del potere e della vendetta si consumano due fra i desideri più potenti e prepotenti dell’essere umano, che lo trasformano; dai quali è maledetto e non salvo.

E non a caso Salvo è il nome di colui che dal desiderio di potere è travolto, maledetto ed infine condotto ad una sorte, di cui il lettore si interrogherà, rimanendo anch’esso, per un tempo confuso, nella sfera delle ombre.

“Le Ombre”, naturale evoluzione del precedente romanzo di Alessandro Zaccuri, “Lo Spregio”, uscito per Marsilio nel 2016, prosegue l’impianto narrativo partendo appunto dalla figura di Salvo, quale rampollo di una famiglia di malavita, in soggiorno obbligato al Nord. La morte del capobastone (o dialettalmente capubastuni) Don Ciccio è il casus belli da cui la storia si dipana e che, nel viaggio verso Sud per trasportarne la salma e dare onorata sepoltura, si evolve in un climax crescente fino al sopraggiungere delle ombre, proiezioni figurate della maledizione del potere.

Il sistema dei personaggi, costruito da Zaccuri in modo magistralmente noir sia dal punto di vista dei ruoli e delle relazioni sia dal punto di vista della “fisionomia gestuale ed emotiva” (ecco cosa intendo quando parlo di bellezza noir), pone all’attenzione del lettore figure maschili di “calibro” e anche di contorno, ma mai di banale contributo alla storia; e figure femminili per nulla marginali, anzi, architette perfette e inflessibili, a tratti spietate, di un disegno sospeso fra la vendetta e la salvezza.

Le Ombre, che volutamente scrivo con la lettera maiuscola, hanno la presenza materica delle Erinni greche, mortifere (dal greco, appunto, portatrici di morte) ma, badate bene, che in questo romanzo la morte non è come appare.

Morire in “Le Ombre” non è uno stato fisico, solo fisico, intendo; è uno stato mentale, percettivo. Ha a che fare con la manipolazione psicologica, al cui servizio è posto l’Eros, l’attrazione furtiva e nefasta del desiderio sessuale, di corpi, di movenze, di voci. Di apparizioni di madonne e maddalene, di belle e di “spregiate”: a pagina 99, infatti, si legge “L’amante era morto, per questo la donna si paragonava alla Maddalena, china in lacrime sul Cristo deposto dalla Croce”. È chiara l’allegoria noir di una figura femminile a metà fra il sacro e il profano, quasi un profano dannato. E se ci pensate bene è il binomio inspiegabile e cancerogeno dell’impianto mafioso.

Lei, un po’ Madonna e un po’ Maddalena, è Agata, l’anima buona di cui al paese si fidavano tutti; rimasta vedova per ammazzamento del fidanzato, Sabatino, non ancora marito, che mancavano 3 giorni al Sì nella Chieda Grande del paese.

La collocazione geografica dei fatti è chiaramente al Sud Italia e il lettore, che metterà insieme i cocci di questo vaso, la vedrà materializzarsi durante la lettura nelle varie dinamiche e nei luoghi che vengono citati, poche volte nominalmente, di più paesaggisticamente.

Ma ritorniamo ad Agata, chiamata in paese Maria Stuarda per la dignità con cui portava il lutto e vestiva di nero, un personaggio di un impianto psicologico e figurativo straordinario: una moderna Medea, tragica ma d’un pezzo, e una “Gna Pina”, “La lupa” di Giovanni Verga, erotica, struggente, desiderata e desiderosa. Addirittura, se potessi figurarla al lettore, in poesia e cinematografia, citerei la “Malafemmina” di Totò e la “Malèna” di Giuseppe Tornatore, interpretata da Monica Bellucci.

Nella storia di entrambi i riferimenti un po’ dell’Agata di Zaccuri, vedova, infermiera devota, consigliera, messaggera, provocatrice, fomentatrice, equilibrista sul filo impercettibile della “vendetta/salvezza”. È lei che, in qualche modo, mette insieme due delle parole che Salvo, “Salvuzzo bello”, sente ripetere dalle ombre, fuoco ed erede. Sullo sfondo dei cani che abbaiano, delle voci confuse dei fratelli che poi si allontanano. In una stanza senza specchi e senza dimensione, se non quella rarefatta fra il sogno/sonno e la semiveglia.

Il lettore capirà.

L’altra figura chiave è la Santabella, guaritrice, imbonitrice, fattucchiera, dotata di poteri taumaturghi, come i Re francesi e inglesi de “I re taumaturghi” di Marc Bloch. Un potere inspiegabile, trasmesso da generazioni, da donne a donne della stessa famiglia. Impossibile rifiutarlo, doveroso osservarlo e prestare onorato servizio. L’unguento di San Michele rende salvi.

Accanto alla Santabella, nel silenzio e nel parlato di una lingua antica, e dunque incomprensibile, elemento fondamentale per l’atmosfera di penombra della stanza, luogo della manipolazione psicologica, si muovono altre due figure, Bettina e Cesare. Dell’una e dell’altro il lettore comprenderà il ruolo e stia attento a cogliere i parallelismi narrativi e gestuali.

Il noir di Zaccuri lascia senza fiato, si pone in una zona critica dell’inconscio umano, dove da sempre è irrisolto l’arcano dilemma fra il fascino del potere (l’essere adulato, desiderato, rispettato, temuto) e la condizione di mezzo, di rinuncia, di remissione, di subalternità agli altri, ma anche a sè stessi.

Le Ombre che si svelano, ad un certo punto della narrazione, portano a riflettere sul concetto di famiglia, di investitura, di predestinazione e di legge del contrappasso. Ma sta al lettore individuare la dimensione di tutto questo.

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