Già la vecchiaia, al minuzioso vaglio degli anni, fornisce strumenti per comprendere cosa sia stata la nostra vita in termini di scelte, sentimenti, parvenza e sostanza. Ma chissà se occorra la morte per svelarci appieno come e perché siamo stati ‘quella’ persona, quale replica di DNA si annidava in noi, chi erano veramente coloro che ci hanno messo al mondo, chi ad avere generato loro, chi altri ancora gli esseri scaturiti dai nostri lombi, e così via in avanti e indietro. Forse solo la morte sa spiegarci la vita, che, in definitiva, altro non è che una distrazione dallo stesso morire.
È quanto suggerisce il romanzo di Marcello Fois, “L’immensa distrazione” (Einaudi), nel quale il protagonista, Ettore Manfredini, “nonostante fosse appena morto, la mattina del 21 febbraio 2017 ebbe la netta sensazione di svegliarsi”. E così, sveglio da morto, dentro un’alba liquida e silenziosa della pianura emiliana, rivede la propria esistenza e quella della sua stirpe. Lui che, ragazzino sedicenne e privo di istruzione, proveniente da una famiglia poverissima, viene preso a lavorare nel mattatoio kosher dei Teglio, e dell’azienda si ritrova ad essere il titolare prestanome quando, con la promulgazione delle leggi razziali, i proprietari ebrei ricorrono a questo escamotage, con il sottinteso impegno da parte di Ettore a restituire tutto, una volta passato il delirio nazifascista.
I Teglio finiranno, però, nell’inferno di Auschwitz. L’unica a salvarsi sarà Marida, una delle figlie, accolta, non senza secondi fini, in casa Manfredini come una parente, poi fatta sposa a Ettore. Negli anni, il mesto mattatoio kosher, evolverà in un impero industriale nel settore delle carni, grazie all’imprenditorialità di Ettore, alla sua voglia di successo e riscatto sociale, per il cui raggiungimento era occorsa tenacia e coscienza lasca, come aveva imparato dalla madre Elda, non proprio fulgido esempio di integrità.
Dunque, in quell’alba del 21 febbraio 2017, Ettore Manfredini ripercorre il film della propria vita; e, dal suo punto di vista, di ottant’anni di storia. La condizione in cui ora si trova non concede più alibi o stratagemmi, è costretto a un ineludibile giudizio su sé stesso. Ad iniziare dal grave atto di disonestà di cui si era macchiato in origine – un peccato, in verità, indotto da una madre di pochi scrupoli – dal quale poi avrebbero fatto seguito altre vigliaccate, ambigui silenzi, opacità. Un’ombra incancellabile lungo tutta la sua vita di audace imprenditore, di una vita di successo fondata comunque su un raggiro, quello della povera Marida, che da diversi anni lo ha preceduto nella dipartita.
Negli occhi spalancati di Ettore – come in “quelle dicerie secondo le quali mentre si muore, o si è appena morti, i fatti salienti della vita trascorsa vengono in mente sotto forma di flusso istantaneo, ma non per questo impreciso” – tornano i trapassati e i viventi. Ecco i figli: Carlo, l’incomprensibile primogenito; Enrica, brillante imprenditrice cui si doveva in buona misura lo sviluppo dell’azienda; Ester, smarritasi nella deriva della lotta armata, finita in carcere dove aveva deciso di “morire senza interferenze”; Edvige, donna di forte spiritualità, diventata suora. Ma anche l’amatissimo nipotino Elio, la punta più avanzata della discendenza, che vuole diventare uno scrittore e che suggeriva al nonno (tardivo lettore) quali libri meritassero attenzione. Insomma, tutta la stirpe dei Manfredini è convocata nella mente (nella coscienza) di Ettore in quel dilatato attimo del congedo.
Sappiamo come Marcello Fois prediliga le saghe familiari. Ricordiamo in proposito la trilogia dedicata a “I Chironi”, con i romanzi “Stirpe”, “Nel tempo di mezzo”, “Luce perfetta”, in tal caso ambientati in Sardegna, terra d’origine dell’autore. Con l’ultimo romanzo siamo invece nell’industriosa Emilia e dentro un arco temporale che dalla Seconda guerra giunge al nuovo millennio. In queste pagine è ancora la memoria (familiare e collettiva) a tessere un racconto sulle combinazioni, gli opposti dell’esistenza umana che, nel bene e nel male, segnano vite, corpi e coscienze.
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Ettore Manfredini, nonostante fosse appena morto, la mattina del 21 febbraio 2017 ebbe la netta sensazione di svegliarsi.
La campagna sfumava nella minuzia ostinata della galaverna, le bestie tacevano: quelle vive e quelle morte. Ettore Manfredini tentò di rigirarsi nel letto senza occupare la parte gelida del materasso matrimoniale su cui, da tanti anni, dormiva da solo. Nella sua stanza rintoccavano lingue d’ombra che non erano notte piena, ma non ancora giorno fatto. Conosceva quel passaggio, quello stadio intermedio, quella terra di nessuno in cui la luce si fa sciropposa. E sapeva che l’alba si sarebbe presentata di lì a poco col mormorio tagliente della vita che comincia. Poteva celebrarne il rito, differente per ogni stagione, sussurrarne le litanie periodiche. Conosceva lo stridore di corvi e cornacchie sui rami dei pioppi scheletrici, i richiami delle volpi dalle tane negli argini, i muggiti e i grugniti dal suo mattatoio oltre la siepe e la voluttà delle mute di gatti che ne leccavano i pavimenti. Tutto come sempre, dunque, in quella mattina d’acciaio. Oppure no?
Ettore Manfredini sfilò il braccio destro incastrato sotto il fianco, poi aprì e chiuse la mano per riattivare la circolazione. Quando quella sembrò riprendere un po’ di calore, capì di essere circondato dal silenzio. L’assurdo mutismo dell’alba avrebbe dovuto metterlo in guardia, indicargli una decisa trasformazione. Qualcosa a cui non si pensa pur fingendo di pensarci. Le rivelazioni ci attaccano di sorpresa spuntando dagli anfratti della nostra coscienza. Ettore Manfredini finse un colpo di tosse che risuonò nell’immensa stanza senza trovare ostacoli. Si disse che stava dormendo e che stava sognando quel silenzio innaturale. Poi sospirò, ingoiando l’aria gelida che ristagnava fuori dal bozzolo di coperte in cui si era rifugiato. Ancora silenzio, e le ombre che poco prima avevano mummificato le pareti ora si dissolvevano in una traspirazione rosata. Là fuori un tepore impercettibile, che era semplicemente il passaggio di stato dal buio alla luce, poteva bastare per liberare le foglie d’erba medica dal sottilissimo strato di ghiaccio che le aveva rivestite nella notte. Anche del loro risuonare si nutriva il fragore dell’alba, ma non quella mattina del 21 febbraio 2017.
Ettore Manfredini strizzò gli occhi fino a sentire come un mancamento partire dalle tempie. Poi li spalancò, constatando che tutto intorno a lui era diventato liquido, quasi lo guardasse da una boccia di vetro.
Nulla dai pioppi, nulla dagli argini, nulla dal mattatoio Manfredini. Che era suo. E che aveva ampliato nel terreno prospiciente alla sua casa proprio perché potesse contemplarlo dalle finestre del lato nord, dove c’erano le camere da letto. E questo anche dopo che Marida, moglie buonanima, morta presto poveretta, aveva insistito perché piantassero una siepe tra la casa e il mattatoio dal quale, diceva non a torto, arrivavano rumori e odori indescrivibili. Quella siepe, che negli anni era cresciuta come una muraglia compatta, non era però bastata a schermare completamente, ma solo ad attutire, gli odori e i suoni del macello. Non l’aveva neanche nascosto completamente allo sguardo, dal momento che se ne intravedevano ancora le finestre del piano superiore e l’immenso tetto a spioventi multipli. Nient’altro gli piaceva di più che risvegliarsi con le sue bestie. Conosceva il rovello dei bovini e la stizza dei maiali. Conosceva la frenesia dei conigli d’allevamento che vivono nella fotta perenne e muoiono lagnosi e ruffiani. Sapeva che c’erano mucche che, per motivi imperscrutabili, avevano l’abilità di intuire il loro ultimo giorno. E che c’erano scrofe anziane che sapevano fingere una specie di catatonia quando percepivano i passi del macellaio o lo sciabolìo delle lame che si affilavano l’un l’altra. E di questo presagire, muggire, grugnire, si era nutrita ogni sua alba. Oltre che dei corvi e delle cornacchie che popolavano i filari di pioppi, o delle volpi che si accostavano di notte alle vasche degli scarti per portare cibo alle tane, o dei gatti dal muso perennemente rosso di sangue. Nel tempo tutto era cambiato, certo, metodi e mezzi, e ormai dagli anni Ottanta quello che era stato un mattatoio si era trasformato in un’industria di lavorazione di carni allevate e macellate altrove. Ma quel preciso brusìo mattutino si era attaccato alle pareti, alle piante, al suo corpo, e non era mai cessato.
Da quando cioè, appena sedicenne, Lucio Armeggi, che era lo schocḥet dei Teglio, gli aveva permesso di scannare, in segreto, il primo vitello della sua vita. Come un collega consumato, nonostante non sapesse nemmeno cosa fosse una shecḥitah.
E quando poi, qualche tempo dopo, con l’entrata in vigore delle leggi razziali si era trovato a gestire da prestanome quell’impresa che rischiava la chiusura immediata, con l’impegno di restituirla non appena il delirio fosse passato. E fin da subito, dalla meravigliosa dolcezza con cui aveva troncato la giugulare della bestia con un colpo netto e preciso, fu innegabile che avesse un talento speciale. Ettore Manfredini, di Vittorio e Elda, sapeva il fatto suo e lo esercitava all’antica, con un coltello affilatissimo, della lunghezza giusta, con la giusta potenza per attraversare cuoio, grasso e muscolo, con la giusta rapidità perché la bestia, bendata e ammansita con carezze, non facesse in tempo a rendersi conto che era finita. Sapeva stabilire, dalla respirazione dell’animale, qual era il momento perfetto per scagliare il fendente.
[da L’immensa distrazione di Marcello Fois, Einaudi, 2025]