Ventotene è un’isola, una striscia oblunga al largo della costa tra Lazio e Campania di nemmeno due chilometri quadrati. È quanto emerge di un vulcano che se ne sta sommerso a 700 metri di profondità. La sua vocazione a luogo di esilio (oggi vi si confinano volontariamente soltanto frotte di turisti) viene da molto lontano. Comincia Augusto (all’epoca l’isola era chiamata Pandataria) che, nel 2 a.C., vi spedisce la figlia Giulia, colpevole di un duplice reato: aveva cornificato il marito Tiberio e complottato contro la vita del padre. Nel 29, sempre a causa di cospirazioni vere o presunte, lo stesso Tiberio vi esilia la nipote Agrippina, figlia di Giulia, che là, secondo leggenda, si lascerà morire di fame. Nel 62 è la volta di Ottavia, moglie ripudiata da Nerone con il pretesto di non avergli dato figli, ma in realtà perché il popolo la preferisce a lui, in quanto figlia di Claudio.
Disabitata per secoli, l’isola comincerà a popolarsi allorché, nel 1771, Ferdinando IV di Napoli decreta che vi prendessero dimora coloni provenienti dalla Campania. E sempre Ferdinando fa costruire sul vicino isolotto di Santo Stefano un carcere di massima sicurezza rimasto in funzione fino al 1965. Un edificio semicircolare progettato secondo i criteri del Panopticon (da un unico punto di sorveglianza potevano essere visibili tutte le 99 celle distribuite su tre piani).
Ma Ventotene è nota ai più per essere stata, tra il 1941 e il 1943, confino di antifascisti e di persone sgradite al regime. Tra costoro Sandro Pertini, Luigi Longo, Umberto Terracini, Pietro Secchia, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi. Come si sa furono proprio Spinelli e Rossi a scrivere durante l’esilio ventotenese il documento “Per un’Europa libera e unita”. Colorni ne avrebbe poi definito la redazione in tre capitoli e scritto una puntuale prefazione.
Ventotene è dunque un luogo dove si avverte il respiro di molte storie. Con sguardo acuto e intenso, bene colse questo afflato Fabrizia Ramondino (1936-2008) – scrittrice pressoché dimenticata – nel libro “L’isola riflessa”, pubblicato da Einaudi nel 1998, ora lodevolmente riedito da Nutrimenti.
Alla fine degli anni Novanta, Ramondino trascorre a Ventotene diversi mesi. Vi approda portandosi appresso la cupezza di chi lotta contro alcolismo e depressione. Questa cortina di ombre non inibisce, però, il suo sguardo acuto e partecipe sulle cose, la predisposizione di un animo in sintonia col tempo e con la storia. Natura, paesaggio, i fantasmi del passato, la garrula umanità dell’oggi, trovano un racconto vivido nel quale l’isola svela e confonde storie, persone, età. E’ giustappunto un isola riflessa. Su quello specchio vanno a rifrangersi anche le trasformazioni di un mondo che già allora lasciava presagire svolte epocali, la fine delle utopie. E, non di meno, vi riverberano i tormenti della scrittrice (confiderà come nel mare di Ventotene avesse tentato il suicidio). Ella avverte un ‘di troppo’, una inadeguatezza del proprio essere, così da dire: “A volte, quando risalgo verso casa, il sole al tramonto mi sembra troppo… A volte non reggo, mi giro dall’altro lato, mi sento indegna di lui, ora che la sua età somiglia tanto alla mia.”
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Una piazza d’Italia. Rettangolare, cinta di case a due piani in stile funzionale e da un forte, tutte, compreso il forte, attintate di giallo – le varie gradazioni del giallo dipendono dal periodo in cui il lavoro è stato eseguito e dalla non sempre riuscita miscela col bianco. Una volontà spontanea o forse, piuttosto, un’ordinanza municipale sorveglia quel giallo, così come i rosa delle alte case a schiera, più giù affacciate sul mare. Le persiane sono verdi, i balconi e le modanature laterali e superiori delle case incorniciate di bianco – per senso d’ordine più che per bisogno di ornamento. Il forte ha buie finestre incassate, alcune ancora dotate di inferriate; un’aggettatura severamente geometrica divide i due primi piani originari da quelli superiori, costruiti per i confinati politici durante il fascismo e sormontati da merli. Una torre orologiaia di fronte al forte, mentre segna una corrispondenza tra l’autorità del tempo e quella del governo, richiama, con i suoi rosa sbiaditi, gli altri rosa disseminati sulle altre case dell’isola e sulla chiesa, da qui invisibili, quasi ad addolcire il tempo con consolazioni domestiche e conforti religiosi. L’unico capriccio delle case sono le ringhiere in ferro battuto dei balconi, ciascuna diversa dall’altra, seppure quasi tutte verniciate in verde o in nero, tranne alcune rossicce per la ruggine, lo stesso colore di certe euforbie verso il mare, come rose dalla salsedine, dai motivi centrali formati da serrate circonvoluzioni floreali. Tra le case e il monumento centrale pareti di sempreverdi, bossi, oleandri, robinie. Come in ogni piazza italiana del Sud un alto palmizio – immagine di nostalgia e di vocazioni per oltremari esotici. Il centro della piazza un tempo era un semplice pozzo, ora in concorrenza col monumento ai caduti: sul basamento si erge un’autentica colonna romana in basalto, sormontata da un’anfora bianca in finto stile antico. Sul basamento si legge:
Col volto al nemico
Con la patria nel cuore
Tempestando la mitraglia
Si votarono
Alla morte
Ed alla gloria
Nella grande guerra.
Basta conoscere appena alcune leggi della retorica per capire che questa scritta, che questo monumento, non sono stati concepiti subito dopo la Grande Guerra, ma in epoca fascista – “anno XI dell’era fascista” è scritto infatti su uno dei quattro lati del basamento. Allora era arrivato il momento di ricordare all’isoletta remota che era stata anch’essa patriottica, in vista del suo inserimento nelle nuove sorti dell’Italia imperiale. E sempre di più negli anni successivi la patria l’avrebbe onorata della sua presenza. Colpiscono i cognomi dei caduti, distribuiti sui lati lasciati liberi del basamento, divisi i soldati semplici dai gradi militari più alti – e naturalmente la maggiore quantità dei soldati semplici rispetto ai secondi: Catuogno, Diacono, Bosco, Pepe, De Luca, Aiello, Gargiulo, Patalano. Li si trova tutti in abbondanza negli elenchi telefonici di Napoli e provincia. Le loro famiglie d’origine infatti arrivarono nell’isola nella seconda metà del Settecento da Ischia e dai paesi vesuviani, in particolare da Torre del Greco, colpita da una disastrosa eruzione del Vesuvio, per colonizzarla. Cognomi più moderni, civili e civici, rispetto a quelli di isolette più meridionali: Servente, Schiavo, Famularo, Meschino…
Ho visto la piazza all’alba, quando ogni traccia di vita – bar, negozi e portoni chiusi; assenza di panni stesi ad asciugare, ritirati la sera a causa dell’umidità notturna, di auto, biciclette, luce elettrica – era a un tratto abolita: una piazza d’Italia di De Chirico, che però non avrebbe amato la sagoma fiabesca del forte né il palmizio né le altre vegetazioni, alle quali avrebbe preferito le colonnine bianche dei piedi dei tavolini capovolti del bar centrale, e che avrebbe ingigantito la stele ai caduti e l’urna che la sormonta, trasformandole in uno dei suoi manichini meccanici – la vera immagine onirica di quella stele.
Le canne, all’alba, quando la brezza mattutina è leggera, hanno movimenti lenti, nobili o solenni, quasi si impediscono di frusciare. Non somigliano alla “canna pensante” di Pascal. Sembra che invece siano esse a piegare la brezza, a inclinarla con autorevole dolcezza verso il mare, da dove è venuta a turbare il loro sereno dominio. Non vogliono somigliare all’uomo.
È una primavera stanca. Forse si è stancata per sempre di essere primavera, o forse solo quest’anno si è impigliata fra nebbie, folate di vento nordico o africano, piogge, fugaci colpi di solleone o brine invernali, e non riesce, la poveretta, a liberarsi – così come io stessa – e strattonata di qua e di là, a sua volta strattonando gli altri, cerca il suo varco tra le stagioni. Pure ne hanno sentito l’approssimarsi le piante, i fiori e il passo, sempre più rado, degli uccelli. Sugli scogli il finocchio marino e l’elicriso sono già in fiore. Lo sono anche la ginestra odorosa, e quella infestante nei campi incolti e le rose, i gerani, le bocche di leone, le buganvillee che ornano villette e pensioni. Osservo sui rami di un alloro dei germogli, metà verdi, metà rinsecchiti. Chissà se riusciranno a spuntarla. Ma qui in piazza la primavera nessuno la vuole più. Che rimanga con i suoi capricci in cielo, confinata o esiliata, e lasci libero il passo all’estate. Sono seduta al bar centrale, quello preferito dai turisti, mentre nell’altro i vecchi isolani giocano a carte. Una famigliola al tavolino accanto: turisti precoci, un padre, una madre, un bambino. Lui, già esperto del luogo, dice a lei: “Vedi questa vite vergine, ancora un mese e ricoprirà tutto lo spiazzo per i tavolini. E guarda, cresce in così poca terra!”. Adesso infatti è a macchie, e io, a seconda dei capricci della primavera o del mio corpo, mi siedo ora all’ombra ora al sole. In questa piazza, che sembra fatta per i bambini, anche se mancano altalene, giostre, vaschette di sabbia, questi genitori questo loro bambino non lo lasciano in pace. “E non correre!” “E non star sempre seduto!” “E non toccare la macchina, scotta, ahia!” “E non sporcarti le mani con la terra!”. Poi, lei a lui come per una quieta illuminazione: “Guardalo, preferisce sedere sullo scalino che sulla sedia!”. Lui sorride. Sembra che si siano scambiati una confidenza. Sono timidamente ammirati. E non gli importa più che il bambino carezzi la pietra degli scalini, ficchi la punta delle dita nella terra da cui cresce la vite vergine. Un piccolo varco si è aperto fra la troppa protezione e il desiderio di libertà – forse anche per sé stessi. E fra la troppa paura e il poco coraggio che hanno segnato le loro giovani modeste esistenze, preservate dall’estasi e dall’orrore, della città come dell’isola. Una famigliola di turisti, appunto, in una piazza d’Italia, appunto, in questa fine secolo, appunto. Per ora nessuno può preservare questo bambino dai propri genitori. Sorride. Nessuno dei due coglie il suo sorriso; il suo sorriso lo vogliono provocare loro. Così tanti hanno fatto con me, sempre più spesso negli ultimi anni. Poi, forse, il bambino a sua volta non imparerà mai ad accogliere il sorriso della lucertola, vorrà provocarlo lui, magari gettandole addosso una pietra. E sarà un ghigno. Non per cattiveria, per amore distorto. Quello al quale in questa primavera stanca mi sono sottratta fuggendo.
A volte, quando risalgo verso casa, il sole al tramonto mi sembra troppo. Perché sfolgora tanto, e tanto e tanto variamente si colora e colora il cielo, prima di morire, assai più che all’alba, quando è così innocente e timido, o al mezzogiorno, quando è così scontato, noioso, dimentico di nascita e morte, come ostinato a durare immutabile, confinato ed esiliato in un carcere, dove regna la ripetizione – è solo in spiriti superiori o dementi la trasformazione? A volte non reggo, mi giro dall’altro lato, mi sento indegna di lui, ora che la sua età somiglia tanto alla mia.
[da L’isola riflessa di Fabrizia Ramondino, Nutrimenti, 2025]