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Malotempo. Paolino Rasura detto Ncantesimo si è fatto uomo, ma non è felice

Avevamo conosciuto Paolino Rasura detto Ncantesimo quando era ragazzino nel paese (immaginario) di Santafarra, in Sicilia, verso la fine della Seconda guerra. Il soprannome Ncantesimo gli era stato appioppato perché spesso assente da quanto gli accadeva intorno. Facile vittima della tracotanza degli altri ragazzi, un giorno, però, aveva mostrato loro di quale coraggio fosse capace entrando nella proprietà di “Filippu de li testi, scultore d’umanità”. Lo scultore “pazzo” e dal passato misterioso, che era arrivato a produrre un migliaio di teste di personaggi illustri, ovunque dislocate nel proprio giardino. Da quel giorno Filippu era diventato per Paolino un punto di riferimento, suo mentore nel passaggio verso l’adolescenza e verso un mondo prossimo a cambiare.

Stiamo parlando del romanzo “Pelleossa” (2023) di Veronica Galletta. Ora l’autrice, con il libro “Malotempo” (come il precedente edito da minimum fax) dà un seguito a quella storia, ne ripropone il protagonista, i luoghi, il paesaggio umano, in vicende immaginate ventiquattro anni dopo. Un universo fittizio, ma che non si fatica a pensarlo vero, vivido scenario di una antropologia che, nel segno della ‘sicilitudine’, sempre affascina, emoziona, indigna.

Siamo dunque nel 1967, Paolino è diventato Paolo, ha trent’anni, una moglie, due figli piccoli. Vive a Palermo, dove, ancora ragazzo, si era trasferito per frequentare l’Accademia di Belle Arti, realizzare il sogno di diventare un artista. Gli studi, però, non gli avrebbe mai terminati. Naufragate le sue ambizioni artistiche, si guadagna da vivere decorando carretti siciliani.

Da anni non ha messo piede a Santafarra. Vi è tornato adesso per partecipare al funerale dell’anziano Filippu, suo maestro (in verità disatteso) di vita e d’arte. Paolo si aggira per le strade del paese, ma cose, luoghi, amici, nemici, amori mancati) gli risultano ormai estranei. Anche la moltitudine di teste scolpite da Filippu, quei personaggi che, un tempo, ascoltava confabulare tra loro e con cui era possibile persino interloquire, a lui non dicono più nulla, ammutoliti sotto la patina del paradosso. Eppure con qualcuno continuano a parlare. A interpellarli sono una banda di ragazzini guidati dalla battagliera Francesca che, consigliata giustappunto dai simulacri di Federico García Lorca e Rachel Carson (biologa, madre dell’ambientalismo americano) frappone la forza del candore giovanile agli interessi di chi vorrebbe distruggere il Giardino di Filippu de li Testi e il mondo di ‘umanità’ là raccolto, per fare posto al tracciato di una superstrada.

Anche Santafarra appare ammorbata dall’euforia del boom economico, del malaffare, degli scempi edilizi. Una realtà che ancora più sconforta il già depresso Paolo, ripiegato sulla propria inettitudine e frustrazione: infelicemente sposato, artista mancato ridotto a pittare carretti in società col suocero.

Quel ritorno alle origini suscita comunque in Paolo un processo di consapevolezza, forse di liberazione. Attraverso una lingua satura, con ponderati inserti dialettali, abile è l’autrice nel confondere realtà, delirio onirico, allegorie. Il tutto per tessere un racconto corale, verosimile e coinvolgente fino all’epilogo che sembra rasserenare il protagonista, e noi con lui.

***

La mattina del 27 dicembre 1967, con circa dieci minuti di ritardo sull’orario previsto, Paolo Rasura scende dalla corriera. Arriva da Palermo con un bagaglio leggero, buono per il tempo di partecipare al funerale. Cammina svelto, senza guardarsi intorno. Il vento di tramontana gli taglia la faccia. Attraversa il Corso, supera il bivio della Ferrovia. Si alza il bavero del cappotto, abbassa la testa; maledice l’umido che mangia le ossa. Sale per Colleorbo, fino in cima. È partito di fretta, lasciando tutto a menzo, ma il cambiamento non avverte, non chiede permesso. Mentre stai dappresso ai tuoi pinseri un giorno alzi l’occhi e Filippu sta sotto a un metro di terra. Il tempo del funerale e se ne torna a casa.

Dallo spiazzo di Colleorbo si vede tutta la valle. A levante il Monte Cronio, e sotto il Giardino di Filippu de li Testi. Sulla collina sopra Capo Graziano sventolano le ville dei nuovi padroni. Squadrata come una bara quella di Mario Camarda, sfuggente di forme e di colori quella di Pietro Craparo, il suo socio. Verso il mare le ciminiere del Petrolchimico, il piumaggio di fumo nero come un pavone a lutto. Giù al paese la Chiesa Nova, scema di forme fuori e gelida dintra, infilza il cielo con il suo pinnacolo da piscispada, è frequentata solo per i funerali, che per le cose dei vivi, battesimi, matrimoni, i paesani continuano a preferire la petra bianca della Chiesa della Santa. A ponente la Contrada Malotempo s’inerpica sempre uguale. Costeggia lo scheletro del rio Spina dalle ossa bianche, arriva fino alla casa dei Lucicùli, poi la strada si allarga, supera la Cava d’Istrice fino allo Scorsone. Il fabbricato si snoda lungo la collina, si vede da ogni dove. In menzo, sul colle senza nome, resiste la Casa Verde, solitaria come un fiore spinoso di cactus. Nella luce fredda di dicembre la vite americana che la avvolge mostra le vene, come una ragnatela assonnata. Paolo sa che in capo a un mese le sue scaglie vegetali spunteranno ancora, come spunzoni avvelenati. Distoglie lo sguardo, si concentra sul movimento lento delle automobili dal Corso fino al Dencin, come si chiamano le Terme adesso, uguali fora ma diverse dentro. Sempre meglio di quello che capitò al Teatro e a villa Marcella, demoliti in un cirichincò. Un giorno alzi l’occhi e non riconosci il tuo paese. Santafarra si deforma, come plastica al fuoco brucia, fete.

Allunga il collo oltre i cipressi, ad abbracciare l’arco azzurro del molo del Porto. L’orizzonte di nuvole punta al largo, come a scappare lontano, ma è una finta. Superato Capo Scùttari s’allineano alla costa, come cani alla catena. Tutto quello che entra nel gorgo di Santafarra non riesce ad andare via.

Non trase al Camposanto dal funerale di suo padre Felice, ma ancora non si decide. Detesta ritornare a Santafarra, dove l’avvenimenti gli si mischiano in testa, e i vivi e i morti si confondono. Al di là del cancello intravede suo fratello. S’è un poco inquartato ma è sempre bello, anche se ha più di quarant’anni e nessuna famiglia. Anche Calogero lo vede, e alza il mento come a dire perché non trasi. Accanto lui quel chiangipiano di Nicola Foglia, i capelli rossi come un pospiro. Ecco sua madre Lucia Iodice, con Ciccio frati scimunito. C’è tutta la famiglia Rasura al funerale di Filippu de li Testi, tranne Pascali che pensa solo alla barca. E lui, che ancora non entra, e torna a Santafarra picca e nenti. Filippu de li Testi è morto, e lui non lo ha manco salutato. Non sale al Giardino da dieci anni.

Si decide a entrare, va verso di loro. Cateno Camarda solleva una mano a salutarilo. Angelica Grasso invece non si volta neppure. Si sporge sulla fossa per buttare un mazzolino di margherite, mentre il figlio di Lucicùli, l’antico nemico, il bambino più feroce di tutti, la sostiene dai fianchi, spaventato che la pancia la sbilanci e la faccia cadere. Accanto a loro stanno Angelo, figlio vivo di Michele Lèggio il barbiere, e una ragazzina scognita con un caschetto di capelli nivori. La faccia bianca di petra, tira su con il naso, mentre Angelica allunga la mano, le carezza una guancia. Da dietro spuntano due picciriddi, l’occhi gonfi di pianto. Sono i nipoti di Angelica, figli delle sorelle Rosa e Aurora, e dei fratelli Aldo e Alberto Ferraù, quelli del Granbar. Nati a pochi giorni uno dall’altro, il primo bruno come i Grasso, il secondo chiaro come i Ferraù, entrambi sputati lo zio Giacinto, morto alla Cava d’Istrice per una prova di coraggio malriuscita. Uno si chiama Giacinto e l’altro Giacinto Secondo, ma tutti li chiamano i due Giacinto, come una moneta a due facce.

Angelica lo guarda. I capelli lunghi e liberi le volteggiano intorno al viso come catene arruggiate. Nonostante la gravidanza avanzata e l’aria carica di spilli, porta un vestito corto sopra alle ginocchia e una giacca di pelle leggera. Lo guarda ostile, mentre insieme al marito si avvicina.

«Noi andiamo. Devo badare alle bestie», gli dice Cateno, tenendola per un braccio. Gli sorride, e Paolo cerca dentro i suoi occhi da cane l’antica ferocia, spaesato da lineamenti che non riconosce. Non ha più la cicatrice della cinghiata del padre, uno sbrego che gli arrivava fino alle orecchie, rendendolo spaventoso pagliaccio triste.

«È stata Angelica, con le erbe», dice Cateno indovinando i suoi pensieri. «Passa a trovarci, sto sempre a Contrada Malotempo. Stiamo, adesso».

«Parto domani», dice Paolo.

«Hai ragione, chissà che impegni tieni, con lo studio di pittore. Se per caso ti trattieni, ci fa piacere», replica Cateno. Angelica ha allungato il passo verso l’uscita. «Lo sai come è fatta», aggiunge stringendogli la spalla, affettuoso. La donna spira come il vento, trascinandolo via come un mulinello.

Paolo li guarda allontanarsi sulla lambretta, lei davanti e lui dietro. Angelica ha perdonato Cateno, se l’è pure sposato, e a lui lo tratta così, come se la morte di Giacinto fosse colpa sua. Cateno ha sempre avuto tutto, il coraggio, il carisma, la prepotenza, e ora pure una faccia senza più tracce da capodoglio squartato. E fra poco un figlio da Angelica, la strega della tingitura. «Silvestro e Nina», mormora per ricordarsi che pure lui ha due figli, ma non serve, i suoi sono come quelli di tutti, ti sposi con una e arrivano, ma il figlio di Cateno e Angelica la Stramma sarebbe stato altro. È a Santafarra da poche ore e si sente soffocare, come se avesse uno straccio in gola. Speriamo che ti nasce morto. Il pensiero lo trafigge, si scanta, allunga il passo. Se la Stramma gli ha letto dentro è finito.

 

[da Malotempo di Veronica Galletta, minimum fax, 2025]

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