“La realtà si forma solo nella memoria”, diceva Marcel Proust, insuperato esperto in tema di tempo perduto e ritrovato grazie a quella memoria che lui chiamava ‘involontaria’; che si ridesta, cioè, senza intenzione, magari per un refolo di fragranza, una musica, il sapore di un dolce (ognuno inzuppa nella nostalgia le sue madeleine). E meno male che c’è poi la scrittura – armato presidio contro la fugacità del tempo – a far sì che quei momenti ritrovati siano salvati dall’oblio. E pure noi, ancorati ad essi, salvati dal pelago dell’esistenza.
Emanuele Trevi è, senza dubbio, tra gli scrittori contemporanei ascrivibili al credo proustiano. Dalla memoria della propria infanzia e giovinezza ha, infatti, tratto bellissime storie che sarebbe riduttivo collocare sugli scaffali dell’autobiografia o del memoir, per come, ben oltre le soggettività o per loro tramite, sappiano indagare inconscio, caratteri, antropologie universali.
Sortisce questi esiti anche il recente “Mia nonna e il Conte” (Solferino), romanzo breve incentrato sulla figura di nonna Peppinella, una matriarca tipica del nostro meridione (in tal caso calabrese), perché, scrive l’autore, “nella maggioranza delle famiglie del sud, chi comanda davvero, stringendo saldamente il suo scettro di emozioni primarie, è semmai la Madre della Madre: la millenaria, zodiacale, rupestre Nonna Mediterranea”.
Nonna Peppinella gestiva la sua autorità prevalentemente da seduta, alla maniera di certe divinità femminili che, accomodate in trono, amministravano potestà e protezione. Del resto erano gli altri ad avere bisogno di lei. All’occorrenza sapevano dove trovarla. Seduta, appunto; servita e riverita dalle due dame di compagnia Delia e Carmelina. Ecco come la vedeva (l’ammirava) il nipote Emanuele quando, al tempo della sua infanzia e giovinezza, trascorreva nel giardino della nonna i lunghi pomeriggi estivi. Era il giardino la cornice che più si confaceva alla rupestre nonna mediterranea, e quello fu anche il teatro dove, all’età di ottant’anni, Peppinella avrebbe preso a trasformarsi in donna bellissima e innamorata.
Un giorno vede presentarsi un signore, pressoché coetaneo, la cui galanteria già rivela uno status. È infatti un Conte, un uomo d’altri tempi, non a caso studioso di storia borbonica. Si presenta, le porge dei fiori e domanda se gli sia consentito transitare dalla proprietà scorciando così il percorso tra la propria abitazione e il paese. Permesso accordato.
Così gli incontri tra Peppinella e il Conte diventano prima consuetudine, poi confidenza, finché sboccia un affetto da far invidia, in quanto amore di semplice e reciproca gratitudine, senza nulla esigere dall’altro, se non che sia sé stesso: “Come se fossero rinchiusi in una sfera di cristallo, custodivano un segreto inaccessibile, la formula di un incantesimo di cui entrambi, a loro insaputa, possedevano la metà necessaria a completare l’altra”.
Con questa storia, Emanuele Trevi evoca o, per meglio dire, ‘celebra’ una memoria privata che intenerisce e diverte. Celebrare comporta di necessità il ricorso alla mitizzazione, a trasfigurare il ricordo in qualcosa di emotivamente attuale. Così facendo, sollecita in chi legge il sentimento universale del rimpianto, che da vano esercizio può trasformarsi a conforto per il tempo presente.
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Come certe ragazzine così timide e ritrose da sembrare anonime, che svelano il loro fascino al momento giusto, nel giro di un’estate, a sedici o diciotto anni, iniziando a raggiare alla maniera di astri appena scoperti nella carta del cielo, mia nonna diventò bellissima dopo gli ottanta. Quando la guardavo, ero quasi sopraffatto da un senso inebriante di totalità, di coincidenza e riconciliazione degli opposti: faceva venire in mente quelle piccole chiese romaniche, nascoste fra i boschi dell’Appennino, che nell’aspetto rustico e squadrato custodiscono la squisita armonia delle proporzioni auree e le infallibili dottrine dei simboli arcani. La sua carne, è inutile negarlo, era stanca e appesantita, ma le stesse leggi della gravitazione universale, che tengono inesorabilmente legate tutte le creature a quella terra che finirà per inghiottirle, sembravano usare con lei un certo rispettoso riguardo: come se un invisibile e premuroso paggio la sostenesse quando sedeva a tavola, o scendeva le scale. I capelli – come tante signore del suo tempo – li portava corti, sistemati in una vaporosa acconciatura lievemente azzurrata. Negli occhi chiari e liquidi, nella dolcezza dei lineamenti sembravano a momenti rendersi manifeste le forze benevole, le energie siderali che avevano governato la sua esistenza. Non bisogna mai, quando parliamo di qualcuno che ci sta a cuore, trascurare le cosiddette apparenze in nome di chissà quali verità nascoste all’interno. Siamo esseri umani, mica armadi. All’interno abbiamo solo la dannata macchina: organi ciechi e deperibili a mollo nel sangue, ostaggi del tempo.
Tutto ciò che invece è vero e significativo cerca la sua strada nel visibile, affiora in superficie: così che una taglia di reggiseno, la maniera di coprire uno sbadiglio con la mano, il profumo di un deodorante, la durezza della barba, dicono di più su una persona di mille parole astratte valide per chiunque altro. Noi crediamo di avere un destino, e invece non abbiamo che un aspetto, un odore. Mia nonna, da questo punto di vista, non era tanto diversa da quelle statue di dee orientali in cui gli attributi immateriali del carattere, i poteri, il ruolo cosmico prendono la forma concreta di diademi, corone, bracciali. E in effetti, anche lei poteva essere considerata a tutti gli effetti una dea: forse di rango inferiore, ma non per questo meno venerabile. Era pur sempre una divinità tirrenica, appartenente al temibile, indomabile, antichissimo ceppo calabrese: perspicace, volubile, testarda, capace di leggerti un pensiero nella testa prima ancora che tu stesso l’avessi formulato. Mentre provo a descriverla, la rivedo come se ce l’avessi ancora di fronte, seduta su una delle sue poltroncine di vimini, le mani in grembo, le gambe accavallate all’altezza dei polpacci, fasciati da pesanti calze elastiche di colori opachi. Non amava muoversi, l’idea di fare delle passeggiate non la commuoveva affatto, limitava scientificamente i suoi itinerari allo stretto necessario. La si sarebbe detta nata apposta per starsene dignitosamente seduta: come se il mondo intero, in caso di bisogno, sapesse dove trovarla.
E negli altri, deprecava volentieri un’eccessiva mobilità, convinta che quell’andarsene in giro senza pace, anziché essere dotato delle sue infinite ragioni pratiche o igieniche, fosse da attribuire alla fragilità dei nervi, alla futilità e all’inconseguenza dei pensieri. Ma erano molte e non tutte facilmente prevedibili le cose che le davano i nervi. Non si poteva negare al suo carattere un grado di suscettibilità molto elevato: come tutti i numi, si offendeva facilmente, e quando ti toglieva il suo favore con teatrale ostentazione, toccava a te incamminarti volenterosamente lungo l’itinerario dell’espiazione, senza contare su comode scorciatoie. Fin dalla prima infanzia avevo imparato a percorrere tappa dopo tappa la strada in salita che riconduceva, immancabilmente, al suo perdono. Lei, d’altra parte, non la faceva mai troppo lunga, perché il piacere che le suscitava l’esercizio della clemenza non era meno intenso di quello che le procurava il suo corruccio. Così sono sempre state le dee.
[da Mia nonna e il Conte di Emanuele Trevi, Solferino, 2025]
