Home » Niente di più illusorio. L’incerto confine tra realtà e finzione

Condividi su:

Libri collegati

Niente di più illusorio. L’incerto confine tra realtà e finzione

C’è chi chiama dumping (termine mutuato dal linguaggio economico) quella sorta di concorrenza sleale praticata dalla narrativa, laddove fa miscela di finzione e realtà. Che tale è quasi sempre il narrare: realtà dilatata all’infingimento, fiction che genera una condizione parallela al reale, ma anche interpretazione, spiegazione del ‘vero’. Naturalmente il lettore sta al gioco, stipula, sulla fiducia, un patto con l’autore/autrice. E nulla quaestio solleva – magari etica o più venalmente di royalties – quand’anche nella storia che sta leggendo possa ravvisarsi una ladreria (furto con destrezza) di vite altrui, talvolta persino del lettore stesso.

Perlustra le diverse angolazioni della questione il romanzo “Niente di più illusorio”, esordio di Marta Perez-Carbonell (Gramma Feltrinelli), che la letteratura frequenta di mestiere (è laureata in filologia inglese e spagnola con un dottorato sull’opera di Javier Marías, insegna letteratura spagnola alla Colgate University di New York). Con il suo libro, che già nel titolo suggerisce un’opinione, sposta dunque la riflessione teorica – anche questo è un trucco – sul piano narrativo raccontando una storia che risulta essere una storia dentro altre storie.

La protagonista, Alicia, è una giovane traduttrice spagnola che vive a Londra. Per la sua attività professionale, una volta al mese deve recarsi a Edimburgo. Parte con il treno la domenica sera, viaggia tutta la notte, così che il lunedì raggiunge di buonora la sede della società per cui lavora. È una trasferta spossante. Cerca di sbarcare la notte leggendo. Si isola così dai vicini di viaggio ed evita l’imbarazzo di ritrovarsi addormentata accanto a sconosciuti. Un viaggio, insomma, che stanca e mette l’uggia addosso.

Non sarà così quella domenica notte in cui, nello scompartimento dove viaggia vengono a sedersi di fronte a lei lo scrittore americano Terecence Milton e un giovane dall’aspetto tipico dell’allievo prediletto. Milton è autore piuttosto noto, e lo è diventato ulteriormente quando il critico del “New Yorker” ha stroncato il suo romanzo “Rocco”, definendolo una falsa opera di fiction, poiché svela, senza alcun riguardo, la storia reale di un ragazzo molto conosciuto negli ambienti artistici e letterari newyorchesi.

Maestro e allievo discorrono animatamente della faccenda. Milton si sente umiliato dall’ingiusto scandalo sollevato nei suoi confronti e da come il libro vada forte nelle vendite solo per la pubblicità negativa che ha ricevuto. L’allievo cerca di rassicurare il maestro che il suo romanzo ha comunque un valore in sé e ben oltre il facile scandalismo. Del resto – argomenta – nella storia della letteratura non mancano casi analoghi.

Alice ascolta inevitabilmente la discussione, e a un certo punto sarà lo stesso Milton a chiamarla in causa. Stavolta il viaggio non può dirsi certo tedioso. Quanto accade negli angusti spazi di quel treno che buca la notte, sollecita in lei considerazioni e interrogativi. Chi sono veramente gli altri ai nostri occhi, cosa vediamo di loro, quanto vogliamo assimilarli a noi o distanziarcene? Forse il nostro sguardo già ne fa finzione, e figuriamoci allorché le loro storie divengono racconto.

Quindi – scrive Marta Perez-Carbonell citando lo scrittore argentino Ricardo Piglia – “non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio dell’atto di leggere”. Ma come è seducente questa illusione.

 

***

Di tutti i viaggi in treno che feci, quello della storia che sto per raccontare fu il più memorabile. Forse successe perché dimenticai di portare un libro per il viaggio. Leggere di notte sui treni è sempre stato un rifugio per i viaggiatori; in movimento, la lettura ci offre una sensazione di riparo e benessere, una lanterna, diceva Walter Benjamin. Persino l’aereo, così temuto, ci accoglie come in una culla quando abbiamo con noi un libro. Si spengono le luci in cabina e la luce di lettura punta su di noi come la nuvoletta che scarica un acquazzone sul personaggio di un cartone animato. Mentre viaggiamo nel nulla nero, leggiamo una storia illuminata e al tempo stesso avvolta nella penombra. Quella notte, però, non avevo un libro con me.

Fu annunciata una fermata in stazione (l’unica che il treno faceva nel suo percorso notturno) e uscii dallo scompartimento per andare nella carrozza ristorante, dove il cameriere si tormentava il ciuffo e si muoveva flemmatico dietro il bancone servendo bottigliette mignon di gin accompagnate da lattine in formato ridotto. Lui doveva andare su e giù per l’isola britannica più spesso di me e forse detestava le stazioni e il movimento.

Le carrozze erano suddivise in scompartimenti in cui i sedili si potevano unire al centro per formare un letto, ma per farlo ci sarebbe voluto il consenso di tutti e anche così sarebbe stato imbarazzante sdraiarsi accanto a degli sconosciuti a pochi centimetri di distanza. In genere, le nottate trascorrevano con i passeggeri seduti che evitavano sempre di incrociare lo sguardo nella strana intimità di quello spazio ristretto. Quella sera non c’era nessun altro nel mio scompartimento, e mentre tornavo dalla carrozza ristorante pensai che, senza un libro, l’unica compagnia sarebbe stata la semioscurità fuori dal finestrino e il gin dentro di me. Ma mi sbagliavo, perché mi aspettava una storia che stava per intrecciarsi con la mia.

Alla fermata precedente erano saliti due uomini che viaggiavano insieme. Occupavano i posti di fronte a me e quando entrai nello scompartimento mi sorrisero. Mi chiesi che cosa li unisse. Avevano modi troppo sorvegliati per essere parenti. Potevano essere amici, anche se uno era molto più anziano, ma qualcosa in loro faceva pensare al rapporto fra un professore carismatico e un brillante studente di qualche corso post-laurea. Avevo conosciuto diversi rapporti basati su quella formula intramontabile: un uomo che desidera essere ascoltato quando la sua stella comincia ad appannarsi, un giovane che ambisce a diventare il prescelto in un gruppo già selezionato di studenti. Erano americani e parlavano di un romanzo; era soprattutto il giovane a parlarne.

“Non credo che il tuo libro venda solo per lo scandalo,” azzardò quello che avevo identificato come il pupillo. “Ci sono molti motivi per leggere una storia. Si erano già vendute parecchie copie nelle settimane prima che uscisse l’articolo di Donovan Seymour, e poi, che importa il motivo! L’importante è che sta circolando.”

Il suo compagno guardava fuori dal finestrino con espressione malinconica, come immagino abbiano fatto tanti scrittori in crisi. Dato il buio quasi totale, probabilmente vedeva soltanto il proprio volto riflesso e forse quell’immagine lo buttava un po’ giù. Doveva avere una sessantina d’anni, ma l’aria miseranda che lo accompagnava lo faceva sembrare più vecchio. Non aveva risposto ai tentativi del giovane di rincuorarlo e a un certo punto si soffermò sulla propria immagine vista attraverso i miei occhi, come a volte ci accade con gli estranei.

Uno esce di casa, racconta delle storie, ride e stappa bottiglie di vino con chi accetta di tenergli compagnia. Così passano i giorni, finché ci vediamo riflessi in altri occhi. Gli sguardi degli altri sono specchi che non bisogna sottovalutare, una di quelle stanze claustrofobiche dei vecchi luna park dove specchi concavi e convessi restituiscono un’immagine sempre più distorta. Nessuno offre riflessi obiettivi, ma in fondo uno non ha mai visto la propria faccia, salvo in una simmetria invertita. Mi sembrò che il professore stesse sperimentando un accenno di quel turbamento vedendosi negli occhi di una sconosciuta.

Lo studente cercava di convincerlo che, nonostante gli scandali che li avevano accompagnati, tanti libri erano diventati delle pietre miliari, a volte proprio grazie a quegli scandali. Io ascoltavo la conversazione mentre fingevo di leggere una rivista che avevo trovato nello scompartimento.

“Non mi interessa quanto sta vendendo il libro. È rimasto sepolto sotto un cumulo di pettegolezzi, è un successo che assomiglia tanto a un reality show. Dopo l’articolo di Donovan Seymour, il romanzo sarà ricordato solo per quello.” Il suo cruccio mi parve autentico e pensai che forse l’aria abbattuta non era solo una posa da scrittore tormentato.

Il giovane lo guardò incuriosito.

“Ma è vero?” gli domandò.

“Che cosa, è vero? Quello che ha scritto Seymour sul ‘New Yorker’?”

“Sì,” rispose il ragazzo. “Ho sempre pensato che gran parte delle accuse fossero inventate. Se è così, non lo si può denunciare per diffamazione?”

Io alzavo gli occhi dalla rivista senza poterlo evitare. Colsi nel professore qualcosa che assomigliava al compiacimento quando intuì l’interesse da parte mia. Il mio sguardo, benché ancora timido, si domandava se la storia pubblicata sul “New Yorker” dicesse o non dicesse il vero. Il giovane lo osservava in attesa di una risposta e mi guardava di sottecchi, un po’ risentito: seppure in silenzio, mi ero intromessa nella loro storia. Avrei potuto uscire per lasciarli parlare liberamente, ma ormai avevo cominciato ad ascoltare ed è vero quello che dicono, che le orecchie non hanno palpebre. Solo il sonno cancella l’ascolto. Il professore mi guardò negli occhi per la prima volta.

“E lei? Anche lei vorrebbe sapere se quello che ha scritto Donovan Seymour è vero?” Mi porse la mano con un sorriso che non ebbi il tempo di interpretare. “Terence Milton, piacere di conoscerla.”

 

[da Niente di più illusorio di Marta Perez-Carbonell, trad. di Gina Maneri, Gramma Feltrinelli, 2025]

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TOSCANALIBRI

Per continuare a rimanere aggiornato sui principali avvenimenti, presentazioni, anteprime librarie iscriviti al nostro canale e invita anche i tuoi amici a farlo!