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Non amo questo tempo: esercizio di metodo e strumento di “ricerca-azione”

Il saggio “Non amo questo tempo” (Betti Editrice) di Francesco Ricci è una raccolta di micro-saggi, perfettamente indipendenti l’uno dall’altro stilisticamente, concettualmente e tematicamente. Mi spiego: ogni micro-saggio affronta un tema, riflette e chiude la disamina. Il successivo riprende con il medesimo esercizio di metodo, di cui a seguire, e dibatte di altro tema.

Vi sono poi altri micro-saggi che si completano dal punto di vista del ragionamento logico-deduttivo e possono costituire delle coppie o triplette tematiche. Mi riferisco, nello specifico, ai micro-saggi che affrontano il tema della detenzione, dell’ergastolo, della sorveglianza e punizione, della macelleria giudiziaria, citando il caso di Enzo Tortora, accusato nel 1983 e condannato a 10 anni di reclusione nel 1985 con l’accusa di traffico di stupefacenti e associazione di stampo mafioso: “Alcune considerazioni in merito alla pena dell’ergastolo” (pp. 51-57) – “Sorvegliare e punire di Michel Foucault a cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione” (pp. 59-67) e “I Cattivi pensieri di Paul Valéry” ( pp. 69- 72).  

Ecco, io credo che queste triplette consentano di sviluppare un dibattito articolato e sostenuto da fonti, pur letterarie, e pongano giusta attenzione ad argomentazioni di non facile digestione.  Stante ciò, dunque, appare chiaro che l’opera nel complesso si configuri come un’analisi attenta e concreta della società contemporanea partendo da un testo – così definito tecnicamente “input” – della Letteratura Italiana ed Internazionale per poi sviluppare una riflessione partecipata ed attuale. Un’operazione interessante che dal testo conduce al contesto, dalla Letteratura alla società.

Potremmo dire che l’ultimo saggio di Francesco Ricci, come sovente è capitato per i suoi scritti, sia, a ragion veduta, un interessante strumento di lavoro e di ricerca per chi volesse non solo approfondire alcuni temi di carattere attuale, storico-sociologico, economico e finanche ideologico, ma avesse anche curiosità ed interesse di avvicinarsi ad alcune voci e opere del nostro tempo, e non solo. 

Molti i punti di contatto fra la letteratura e la società, che si dipanano, con una scrittura fluida, di sostanza, ma mai sovrabbondante, fra l’immortalità di un’opera letteraria e lo scorrere del tempo, veloce, inesorabile, a volte poco (per nulla) migliorativo. Ed è qui che lo spirito critico di Ricci si incardina in una constatazione di concetto ben precisa, seppure a metà fra la provocazione e lo spirito – tipicamente pasoliniano – del contraddittorio: non amo questo tempo.

E il non avere amore per questo tempo (oggi) è quasi l’averlo amato troppo (in passato), conosciuto e vissuto così intensamente, anche attraverso la letteratura, da non poter non vedere le zone d’ombra o addirittura zone grigie di una società esasperatamente individualista altresì collocata in un paesaggio che ne è lo specchio, deturpato e inospitale, a tratti violento, privo di legami significativi.

Fra le riflessioni che porto all’attenzione dei lettori e delle lettrici in questo spazio di analisi si collocano quella sul silenzio e sul potere. Mi potrebbero dire, i lettori e le lettrici, due temi generici! No, assolutamente ed è questa la dialettica efficace di Ricci: nulla è generico. 

Prendiamo il silenzio e partiamo dal metodo. Ricci in “La scomparsa del silenzio” (pp. 101-109) individua come testo “input” il saggio “Il Silenzio” di Natalia Ginzburg, pubblicato nel 1951, in Cultura e Realtà, rivista diretta da Mario Motta e sviluppa la riflessione sull’assenza del silenzio – oggi – che – contrariamente a quanto sosteneva la Ginzburg “non è più il vizio che avvelena la nostra epoca”. Piuttosto (…) è una virtù – antagonista, una virtù che si configura come punto di resistenza [p. 103].

Praticarla vorrebbe dire uscire dal chiasso della comunicazione, dall’ubiquità dei media. Ed ecco che il lettore/lettrice è condotto/a da una parte alla considerazione di concetti quali iperattività e ipercomunicazione sia dal punto di vista lessicale che concettuale e dall’altra alla rievocazione di una delle voci femminili più interessanti del Novecento: Natalia Ginzburg. Se non la si conosce, si è portati a fare ricerca perché lo stimolo metodologico non consente di procedere senza “ricerca-azione”.

Credo in ultima istanza che la scomparsa del silenzio – come quella della vergogna – direbbe Zerocalcare – sia la grande assente del nostro secolo. 

Ho citato anche il potere, si, ed anche qui l’esercizio del metodo non tradisce. Ricci in “Dalla parte della razza dannata” (titolo quanto mai impressionista – badate bene Emile Zola scrive su Le Voltaire (1880) parlando dell’impressionismo “ricerca esatta delle cause e degli effetti”. Ecco perché mi appare un titolo impressionista) cita una considerazione di Cesare Garboli[1] sul Mondo salvato dai ragazzini [2]di Elsa Morante dicendo che “il contrario del potere non è un potere diverso. Il contrario del potere è l’intelligenza. Attendersi iniziative brillanti e decisioni sagge da chi lo detiene è uno sbaglio […] – p. 79.

Potremmo mai dire che tale affermazione oggi non sia vera? Preludio di guerre impensabili e inaccettabili? Non è una riflessione che dovremmo fare? Per noi, abitanti a volte ignari del nostro tempo e per i giovani che questo tempo lo attraversano con ben poche aspettative. Garboli che commenta Elsa Morante, ma l’opera di Elsa Morante soprattutto, conducono Ricci ad analizzare l’azione del potere anarchico e manipolatore su tre grandi scrittori ed intellettuali, la cui vicenda umana ed esistenziale, si scontra con la logica del potere: Gabriel Garcia Lorca, Pier Paolo Pasolini e Reinaldo Arenas

Impossibile per quel lettore/lettrice che non conosca Elsa Morante o Gabriel Garcia Lorca o Pier Paolo Pasolini o Reinaldo Arenas continuare a non conoscerli. 

Se è vero quanto lo stesso Ricci afferma nell’incipit a “Piccolo contributo alla pulizia del linguaggio: una rilettura della Luna e i falò di Cesare Pavese che “Tra i tanti meriti della Letteratura vi è anche quello di aiutare a comprendere il significato esatto di un fenomeno, di un evento, di una realtà” (p.11) – beh, non ho dubbio alcuno, se il mio parere possa essere acquisito, che “Non amo questo tempo” abbia soddisfatto quanto previsto dalle premesse.

Ergo, la mia individuazione del metodo logico-deduttivo (dal testo al contesto) trova ampia risposta nei fatti e nei casi di analizzati.  Ai lettori, dunque, la curiosità di scoprire, in un reticolato narrativo interessante e stimolante, il piacere ed il senso del dibattito costruttivo e fondato. E anche la bellezza della Letteratura che può molto, ancora può molto. 

D’altra parte, disattendere questo tempo – purtroppo – corrisponde anche a non avere reali conoscenze in merito, troppo fagocitati da una informazione poco puntuale e pressapochista, seguaci di un “opinionismo” che esula assolutamente dal confronto e dal dialogo. 

“Non amo questo tempo” va letto per scoprire e per riflettere.

 

 

[1] Cesare Garboli, originario di Viareggio, è stato uno dei più grandi critici letterari italiani del ‘900. Le sue opere da critico-scrittore si sono concentrate su Molière, Pascoli, Morante, Bassani, Ginzburg. È stato autore di numerosi saggi critici e di innumerevoli articoli giornalistici, diventando perno dell’attività intellettuale letteraria italiana. Tra le raccolte: La stanza separata (1969), Molière. Saggi e traduzioni (1976), Scritti servili (1989), Falbalas. Immagini del Novecento (1991), Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante (1995), Ricordi tristi e civili (2001), Pianura proibita (2002). 
[2] Il libro esce nel 1968, stagione italiana di profondo rinnovamento politico e morale. Un libro di grandi slanci, anche formali. Un inno all’adolescenza, alla sua energia e alla sua bellezza come visione politica per cambiare il mondo.  Pier Paolo Pasolini scrive  «Un manifesto politico scritto con la grazia della favola, con umorismo, con gioia».
 

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