Autorevolezza. Ecco la parola che, in unica soluzione, potrebbe definire il romanzo di Elisabetta Rasy “Perduto è questo mare” (Rizzoli). Intenso memoir che possiede, giustappunto, l’autorevolezza della scrittura e della riflessione che l’ha sollecitata. Ricordi, sentimenti, pensieri, personaggi, luoghi, finanche lo struggimento, assumono sulla pagina un’intonazione austera, risultato di quanto il limìo del tempo abbia depositato e rielaborato.
Siamo negli anni Cinquanta, in una Napoli incupita dalla devastazione della guerra recente. È questa la città (e il perduto mare) dalla quale una ragazzina viene allontanata e dove lascerà per sempre suo padre Lello, bell’uomo dagli occhi verdi, ex aviatore e ormai ex di tutto, per come sia diventato un essere indolente (“si dedicava al sonno come gli altri si dedicano al lavoro”), chiuso in una casa anch’essa ex elegante, avviata alla fatiscenza insieme all’unico inquilino che d’ora in poi l’avrebbe abitata.
Un padre evanescente, facile da dimenticare per tutto il resto della vita. Ma non sarà così. La ragazzina di un tempo, diventata donna matura, ne prenderà coscienza inaspettatamente, a distanza di anni, quando muore, quasi centenario, l’amico e maestro Raffaele La Capria. Pure lui esule napoletano, scrittore che nella sua opera ha testimoniato a più riprese l’amore per la sua città. “Chiacchierando con lui nel corso di tanti anni, non un teatro della memoria ma un oscuro scantinato dei ricordi silenziati aveva aperto le sue traballanti porte. Poi, come nei film, c’è una dissolvenza e i sentieri del tempo passato, il suo e il mio, abusivamente e a modo loro, si intrecciano. E nel mio sentiero c’era una figura a cui per decenni mi ero sforzata di non pensare: mio padre”.
Accade dunque che la scomparsa dell’anziano amico le risvegli all’improvviso la figura del padre. Pensa che i due abbiano avuto non poche affinità, ma sorti diverse: figli dello stesso tempo, l’uno, appartato, comunque gratificato dai suoi libri; l’altro arreso ad una improduttiva solitudine. Entrambi sedotti dalla loro città, ma amanti non ricambiati, anime ferite e di silenziosi crucci.
Ecco allora che in un gioco di dissolvenze, intrecci, sovrapposizioni, la donna che oggi ha la consapevolezza dell’età, il respiro lungo della memoria, si ri-racconta la propria storia e, di riflesso, quella vissuta dal nostro Paese in oltre mezzo secolo.
Il romanzo parla di padri assenti, paternità rifiutate, assunte in surroga, idealizzate, mutuate dal mito (si evoca la rancorosa lettera di Kafka indirizzata al padre e la discesa agli Inferi di Enea in cerca di Anchise). È una storia che segue il filo non sempre lineare dei ricordi, allorquando la memoria prova a suturare ferite, operare ricongiungimenti, reinventarsi persone e situazioni. Forse un modo per esigere vecchi crediti, avanzare tardive richieste d’amore e disponibilità a ricambiarlo, ancorché fuori tempo massimo. Insomma, il momento in cui la vita, per legittimarsi, domanda l’acquisizione del suo trascorso, senza tagli o pretestuose amnesie.
Qualcosa di analogo racconta la storia di Elisabetta Rasy. Nella rielaborazione dei ricordi viene ritrovato un padre perduto, non importa nemmeno quanto corrispondente al suo vero. Quello che conta è l’avvenuta ricongiunzione con un sentimento, in verità mai rimosso dalle secrete di cuore e ragione.
***
L’ultimo cane di mio padre, l’ultimo che gli ho visto, si chiamava Gip. Era il cane più brutto che abbia mai conosciuto. Pelo biancastro con macchie grigie, una figura sformata da malanni o golosità che rendeva la sua mezza taglia sproporzionata tra testa e corpo, il muso dolce ma attonito. Mio padre era stato molto bello, e qualcosa della sua bellezza precocemente sfiorita nei fallimenti e nella solitudine gli era rimasta: alto ed elegante, malgrado gli abiti consunti, lineamenti mediorientali insoliti, meravigliosi occhi verdi. Lui e quella bruttissima creatura però si assomigliavano molto. Gip doveva essere stato un randagio acchiappato chissà dove: anziché acquisire, grazie all’ospitalità che mio padre gli aveva offerto, un tono domestico, aveva contagiato mio padre della sua randagità. Anche per questo, ma soprattutto per il sonno, la ragazzina, la ragazzina che sono stata, aveva deciso di fuggire.
A settembre, il mese più amato, il mese in cui era nata, la luce è meno aggressiva e i raggi del sole cadono obliqui sulla terra con una cortesia che il sole d’agosto non conosce. Ma questo non riguardava l’appartamento dove lei silenziosamente si muoveva, quel piano terra oscurato tutto l’anno da un’eterna penombra. Trasse da sotto il letto una valigia scozzese molto leggera. Ricordo che c’erano due scamiciati, uno a fiorellini su fondo bianco e uno arancione con un bordo marrone, regalo di un parente che era un famoso sarto napoletano, unico orgoglio del suo ridotto guardaroba. La ragazzina si muoveva stando attenta a non urtare il largo tavolo quadrato dove certe sere giocavano a poker, o forse a conchìn, non so più. C’era anche una grande credenza con una specchiera, scura come tutto il resto e troppo grande per la stanza angusta. Procedeva a raccogliere le sue cose con cautela, non voleva svegliare nessuno, pur sapendo che erano precauzioni inutili, a quell’ora suo padre e sua nonna Enrica dormivano di un sonno che, come si dice, neanche le cannonate avrebbero interrotto. Per Enrica era il primo sonno, perché rincasava in taxi dal circolo un po’ prima delle sette. Quanto al padre chissà: lui si dedicava al sonno come gli altri si dedicano al lavoro, con rigore e intensità, ma la ragazzina non aveva mai capito a che ora iniziasse il turno, sapeva però che prima delle due o delle tre del pomeriggio non si svegliava. In quelle lunghe ore mattutine in cui lui dormiva le sembrava di soffocare, come se a causa del sonno lo spazio si restringesse, la casa diventasse una prigione. Nella città, a quell’epoca e anche prima, il sonno doveva essere molto importante, almeno a giudicare dalle canzoni (scetate, vienime n’zuonno, si me suonne int’ e sogne che ffaie eccetera eccetera), come se il sonno fosse una zona urbana affollata o forse un’area franca. Oppure il padre della ragazzina dormiva così a lungo per incontrare nel sonno tutte le persone che non frequentava durante la veglia, quando era sempre solo. Anche se lui sosteneva di non sognare, anzi diceva che non aveva mai fatto un sogno in tutta la sua vita, e lo diceva sorridendo con i suoi begli occhi verdi, come uno che dice almeno questo problema non ce l’ho avuto.
Che cos’era questa notte perpetua che l’avvolgeva? Certo un firmamento senza stelle, qualcosa di tenebroso e inaccessibile che mi faceva paura… la notte eterna della sconfitta. Inoltre era come se quel sonno non ristoratore gli restasse attaccato addosso durante il giorno, come una sorta di melma di cui è impossibile liberarsi. Allora non conoscevo la parola depressione né la si usava nel mondo che mi circondava. Delle donne si diceva ogni tanto – ogni tanto spesso – che avevano l’esaurimento nervoso – ma gli uomini? Certo non quell’esecrabile male femmineo… Piuttosto un incantesimo, qualcosa di simile a una maledizione stregata. Niente lavoro, niente amicizie, niente amore: solo sonno. Mio padre si perdeva nelle sabbie mobili del sonno.
La ragazzina voleva fuggire dall’incantesimo, altrimenti si sarebbe addormentata anche lei, ma lì in quel brutto appartamento senza luce, al pianterreno, simile a un sarcofago, nessun principe sarebbe venuto a svegliarla. Per giunta, i prìncipi che in quei mesi aveva conosciuto non erano per niente rassicuranti.
Erano le otto meno dieci del 15 di settembre, il giorno prima del suo compleanno, e Vittorio l’aspettava all’angolo, proprio all’inizio di Parco Margherita. Vittorio era l’unico di cui si fidava, un giovane avvocato che aveva il doppio o quasi dei suoi anni, lei stava per compierne sedici lui ne aveva trentuno, e una bella macchina blu. Era un uomo perbene, forse l’unico che aveva conosciuto quell’estate, non che gli altri fossero malavitosi ma certo erano sempre pronti a mettere le mani addosso a un’adolescente come si è sempre pronti a tirare un calcio al pallone. Vittorio col suo GT veloce l’avrebbe aiutata nella fuga, riportandola sana e salva a Roma, a casa, alla solita vita con sua madre. Cioè, sana sì, salva non proprio.
Una volta tornata, eliminai i libri del quinto ginnasio tranne l’Eneide, della quale mi sembrava di aver dimenticato tutto fuorché la storia di Creusa, la moglie di Enea, e di Didone, l’amante, che di se stessa dice in continuazione che brucia: uror, verbo intransitivo, cioè che riguarda soprattutto il soggetto che ne è protagonista. Nella nuova classe cominciai una vita più di adulta, che si traduceva soprattutto nel fatto che il sabato pomeriggio andavo al cinema con un gruppetto di compagni a vedere film d’autore. Infatti di lì a poco vidi quello premiato al Festival di Venezia, Le mani sulla città, di quei due napoletani, Rosi e La Capria. Quel ’63, l’estate, fu l’ultimo anno che frequentai mio padre e la sua casa. Tornando a Roma sapevo benissimo che ormai il regno paterno apparteneva al mondo di ieri, parola che sembra indicare un tempo vicinissimo, quasi ancora raggiungibile, e invece racconta perentoriamente l’irreversibilità del passato.
[da Perduto è questo mare di Elisabetta Rasy, Rizzoli, 2025]