Aristocle (427-347 a.C.), poi chiamato bonariamente Platone (per le sue larghe spalle), allievo di Socrate e maestro di Aristotele, è ritenuto, giustappunto insieme a Socrate e Aristotele, tra i fondatori del pensiero filosofico occidentale. Nietzsche – che del platonismo contestò la ‘fuga’ dal mondo reale, quel dualismo corpo/anima creato come a disprezzo della vita – ebbe comunque a definire il filosofo greco “il figlio più bello dell’antichità”.
Cosicché, da occidentali, è difficile non dirsi figli di tale figlio e della lezione che, volenti o nolenti, ha segnato il nostro pensare. Ad esempio sul ‘conoscere’, che è ‘ricordo’ (anamnesi) di qualcosa depositato già dentro di noi; sulla necessità della dialettica, del dialogo, della messa in discussione delle proprie idee. E, ancora, sull’amore – anche quello tutt’altro che ‘platonico’ – quale desiderio di completezza, riparazione di una mancanza. Per non dire della stupenda allegoria del ‘mito della caverna’ sul quale generazioni di studenti hanno compreso – perlomeno intuito – ciò che fa distinguere l’apparenza dall’essenza.
Lo scrittore Matteo Nucci sedeva ancora sui banchi del liceo quando rimase preso dalla figura e dal pensiero di Platone, e mai ha smesso di studiarlo. Ora, a summa di ulteriori approfondimenti e intelligente venerazione, gli ha dedicato un corposo romanzo, “Platone. Una storia d’amore” (Feltrinelli), che del filosofo ateniese ripercorre, vita, pensiero, ideali, ambizioni, amori, delusioni, sofferenze.
Una storia che inizia quando il dodicenne Aristocle, una mattina d’estate del 415 a.C., se ne sta, con altri tre ragazzini, accovacciato su un pietrone sovrastante il porto del Pireo. Ha lo sguardo vivace, indagatore, commosso. Al porto c’è grande movimento, come nei giorni di festa, ma non vi è nulla da festeggiare. Si sta partendo per la guerra. Anche i quattro ragazzini, in silenzio, colgono il clima solenne e drammatico che contrasta con l’esuberanza dell’estate. Uno di loro è colui che racconta questa storia.
Sulla scorta di fonti storiche, aneddotica, capacità di restituire (immaginare) un contesto storico così lontano, con altrettanta sagacia nel saper cogliere una personalità tanto complessa quale risulta essere quella di Platone, Nucci offre un racconto che va ben oltre la biografia romanzata. Le quasi 600 pagine seguono infatti un impianto, una cifra narrativa di forte impronta letteraria. Geografie, avvenimenti, personaggi paiono prescindere da quel contesto storico-temporale ed abitare il presente. Non fa fatica il lettore a ritrovarsi nel pathos (e nell’epos) di quel racconto, nelle passioni e sentimenti che lo attraversano. L’amore su tutti, che – leggiamo nel ‘Simposio’ – “rapisce vertiginosamente gli amanti”; è piacere, ma anche desiderio di qualcos’altro che la loro anima “non sa dire, quindi lo profetizza e lo esprime attraverso enigmi”.
Tra rivelazioni e interrogativi, esaltazione e avvilimento, l’esistenza di Platone – scrive Nucci – è quella di un “atleta dell’anima”. Considerato il vuoto di pensiero e di parole in cui è sperso il nostro presente, potrebbe tornare utile la frequentazione della sua palestra.
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Una mattina nel sole del Pireo
415 a.C., prima estate
1. La via del porto
Scendevo al Pireo per la strada di Kilis. Il sole era sorto da poco, ma sembrava già giorno inoltrato. Una luce ispessita, densa come polpa, tagliava il bosco della collina e vedevi la polvere roteare nell’aria come un velo tirato giù fra gli occhi e la realtà. I carri scivolavano veloci infilandosi in quei solchi che incidono le grandi pietre del lastricato nel punto in cui la via si stringe per passare fra i caseggiati. Il sibilo sconnesso delle ruote si perdeva fra le grida eccitate dei bambini trattenuti a stento dalle madri. Gli uomini fischiettavano. Sollevavano il braccio nudo salutando amici e conoscenti. Dalle porte semiaperte delle botteghe, voci concitate di chi si vestiva per scendere al porto e non perdersi lo spettacolo. Solo qualche vecchio veniva giù a passo pesante, quasi fosse una marcia funebre. L’estate stava esplodendo trionfale. E proprio nel momento in cui la strada fra le mura si liberò di schianto dall’ombra del bosco di pini, io sentii tutto insieme il canto delle cicale. Era come un respiro immane, un’eterna onda sul bagnasciuga, un muggito di tori in amore quando la luna è piena.
Alcuni sostengono che ogni diciassette anni le cicale si riproducono a livelli così vertiginosi che quando si annuncia l’estate il loro canto ha qualcosa di oltreumano. Ma nulla è oltreumano. Chi la pensa così non ha mai ascoltato il suono del vento che spazza via la sabbia fra i gigli di mare quando la bella stagione è al termine. Sembrano infinite campanelle sorde capaci di formare tutte assieme – chissà come – un respiro armonioso. Devi stenderti in terra e chiudere gli occhi per ascoltarlo. Ma quel mattino non pensavo ai gigli che tappezzano le dune della mia isola. Vedevo la città scendere all’appuntamento del Pireo e sembrava la festa che si tiene nel pieno della primavera, quando i cittadini si riversano al porto in onore della dea che i Traci hanno portato qui: la Grande Madre Bendis. Immaginavo di poter fare come due mesi prima. Mi sarei immerso nella festa come in una giostra infernale. E ne sarei uscito soltanto per cercare riparo e tranquillità in qualche locanda. Pensavo a quelle casupole di cretesi tirate su fra le rocce che digradano verso il mare là dove sono state costruite le nuove mura. C’è un piccolo golfo in cui si dice che sia andata a bagnarsi Afrodite. La strada polverosa scende fra piccole imbarcazioni e una vecchia grassa e vestita di stracci, ogni giorno, a fine mattina, attizza il fuoco. Il fumo si attorciglia in cielo e lo spiedo che è l’arma regale della dea Bendis domina incontrastato. L’odore è acre e quasi disgustoso finché non iniziano a sfrigolare sulla brace i pesci che portano i pescatori di Egina. Volevo andare lì quando tutto sarebbe finito.
Superai le ultime case di Kilis. La strada si faceva più stretta. Le Lunghe Mura adesso erano alte sui nostri fianchi e la via in leggera pendenza era proiettata verso il mare che brillava lontano. Si potevano ascoltare discorsi di ogni tipo fra i gruppuscoli di cittadini che si avviavano verso il porto. Mai come nei giorni precedenti si era parlato tanto. Io però non prestavo attenzione. Era finito il tempo delle chiacchiere. Affrettai il passo. Conoscevo bene la strada. Mi lasciai andar giù. Era come inabissarsi. Come sprofondare. Non ho mai saputo dire quel che stavo provando a parte la sensazione del caldo e della sete che mi presero quando ero ormai al termine del cammino. Chiesi dell’acqua. Ero solo e allucinato. Pensavo esclusivamente allo spettacolo grandioso che mi aspettava e al pesce che avrei mangiato nel golfo di Afrodite. O almeno così credevo. Perché c’era qualcos’altro. E nel momento in cui la strada percorse l’ultimo dislivello, stavolta in salita, per affacciarsi finalmente sul porto, l’immagine parlò.
2. Incontro sulla roccia
L’immenso golfo che mezzo secolo prima era diventato il porto di Atene sembrava dipinto. Fra la terra increspata arida e il mare piatto come acqua di lago, erano disposte innumerevoli triremi. Pare che fossero esattamente cento. Qualunque numero non potrà mai raccontare l’impressione provocata dai colori scelti da ogni comandante per dipingere la prua della propria imbarcazione. Nei giorni precedenti alla partenza, quasi tutti gli uomini che rivestivano ruoli di comando si erano lanciati in una specie di competizione, per superare in bellezza, potere e magnificenza i propri compagni. Molti sostenevano che quello spirito agonistico avrebbe spinto gli uomini a migliorarsi. A tal punto che la flotta ateniese sarebbe diventata la migliore di sempre.
Eppure, nel momento in cui mi affacciai sul porto e assieme alla folla improvvisamente stordita, attonita, muta, fui colpito dalle infinite imbarcazioni all’ancora, vidi qualcosa che aveva a che fare piuttosto con un agone artistico, o con lo spettacolo quasi teatrale di una parata militare. Del dolore che vivevano le famiglie dei soldati in partenza non si avvertiva che una lontana eco. Del resto, erano scesi al Pireo già all’alba, i giovani e le loro famiglie. Era consentito solo a loro di prendere la via del porto per primi. Si disse che il motivo della regola era evitare assembramenti. La verità è che le scene di dolore nel momento dell’addio dovevano rimanere private. Meglio solo immaginarlo, l’animo gonfio con cui si avviavano i ragazzi, vinti dalla paura, mentre i padri fingevano distacco e le madri piangevano. Tuttavia di quel dramma qualcosa abbiamo saputo tutti. Tucidide, infatti, il grande storico, vista la sua autorevolezza, ignorò i divieti e si mescolò ai familiari; e ne ha poi potuto scrivere in poche righe perfette, con la brevità che solo lui riusciva a cogliere, dicendo che nel momento in cui stavano per separarsi, genitori e figli provarono tutti la sensazione del pericolo, una sensazione terribile che tuttavia erano riusciti a tenere a bada nei giorni precedenti, quando avevano deciso di conquistare Siracusa, la grande e potente Siracusa, prima tappa verso un’altra conquista, quella dell’intera Sicilia. Un sogno folle, secondo molti. Un sogno oltraggioso dei limiti umani.
Adesso comunque non era più possibile ragionare o discutere. Tutto era pronto. E mentre correvo giù, quasi invasato, temendo di perdere l’arrivo dell’uomo che tutti aspettavano, sentivo che in effetti dominava una sensazione di immobilità, una specie di sospensione di cui non si capiva il motivo. Avrei voluto fermarmi e indagare. Ma tirai dritto. Conoscevo bene il luogo da cui avrei potuto seguire ogni cosa. Avevo compiuto sedici anni. Ero veloce e muscoloso e mi sentivo pieno di una forza mai sospettata. Così mi lanciai tra i campi, seguendo un sentiero appena accennato fuori dalla via principale. Al tempo, in pochi conoscevano i segreti del Pireo come me. Il viottolo saliva quasi perdendosi fra la macchia di lentisco. Improvvisamente si sentirono solo ronzii. Saltai fra le rocce. Avevo il cuore in gola. Voltai dietro il grande masso di pietra tagliata chissà quando per i grandi lavori con cui era stato realizzato il nuovo porto. Era una roccia scura, squadrata dagli scavatori e rimasta lì a formare una sorta di roccaforte. Salii i gradini formati nella terra e fui in cima. E grande fu la mia sorpresa nello scoprire che non ero solo. C’erano tre ragazzi seduti. Si voltarono, mi guardarono e accennarono un saluto. Sorrisi. Mi andai a sedere a poca distanza dal più grande che doveva avere pressappoco la mia età. Non dicemmo nulla. Il silenzio dominava ogni cosa. Sentii un nitrito e mi voltai. Vidi un carro. Mi sporsi senza dare nell’occhio. Il carro su cui i ragazzi dovevano essere arrivati chissà da dove era aggiogato a due cavalli. Due destrieri nobili e belli. Uno era completamente bianco. L’altro completamente nero. Sul loro manto sudato rimbalzavano riflessi del sole incandescente.
[da Platone. Una storia d’amore di Matteo Nucci, Feltrinelli, 2025]