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Progettare è un atto politico. Intervista all’architetto e designer Paolo Deganello (parte I)

Le case operaie, l’acriticità dello status quo e l’Eco Design come forza motrice del presente

Per la rubrica Firenze Smart, abbiamo deciso di confrontarci con Paolo Deganello, architetto e designer di fama internazionale. Noto per il suo approccio radicale e politico al progetto, Deganello è socio fondatore dello storico gruppo Archizoom Associati, e ha sempre unito alla pratica progettuale delle riflessioni molto critiche sul ruolo del Design nella trasformazione della società.

Abbiamo incontrato Paolo Deganello all’ISIA di Firenze, subito dopo una delle sue lezioni del corso di Ecodesign; quest’anno, insieme ai suoi studenti e alle sue studentesse, propone un progetto legato all’urbanistica di Firenze.

Ci può raccontare come si è avvicinato al mondo del Design e dell’Architettura e quali sono stati i suoi primi riferimenti nel fondare Archizoom Associati nel 1976?

Dopo il liceo, per motivi legati al mio vissuto, mi sono iscritto alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze — anche se sono veneto, non toscano. Lì ho vissuto, con mia grande soddisfazione, un periodo di grande fermento politico che nella mia facoltà si avvertiva in modo particolarmente intenso. Ero un “provincialotto”, ma queste dinamiche mi interessavano molto: volevo conciliare la mia formazione con l’idea di dare un significato politico al mio lavoro e alle mie scelte progettuali. Tutto ciò mi portò a voler contrapporre alla casa borghese un modello di casa operaia.

Come progettista — e quindi come designer — decisi di mettermi a disposizione di quel progetto di radicale cambiamento, cercando di capire in che misura un ruolo come il mio potesse essere utile a costruire e a migliorare quell’immaginario domestico. Mi misi dunque all’opera, e iniziai a pensare e progettare idee che valorizzassero e migliorassero la vita quotidiana per una possibile cultura emergente, capace di cambiare radicalmente lo stato delle cose. A posteriori, credo che quanto pensai e feci nel mio piccolo all’epoca rappresentasse molto bene il bisogno di cambiamento di un intero ceto sociale, molto coinvolto politicamente nel conflitto capitale e lavoro.

Sono rimasto molto legato a quel tipo di formazione e di approccio progettuale. Posso dire di averlo cercato di applicare per tutta la mia carriera, al punto che ci ho scritto anche un libro. Si chiama Design Politico, è un volume molto modesto, e lì cui cerco di dare delle informazioni utili agli studenti e agli aspiranti designer. Infatti, ho sempre voluto dedicare l’ultima parte della mia vita e della mia carriera all’insegnamento e alla ricerca didattica.

A proposito di carriera: lavorativamente, Lei ha attraversato varie epoche di rottura e di ricostruzione. Come si sente oggi a vedere che molte delle provocazioni di Archizoom sono diventate parte del dibattito mainstream? Ritiene che il radicalismo progettuale abbia ancora una dimensione nella contemporaneità, magari declinato in maniera diversa?

Si, oggi bisogna declinarlo in maniera molto diversa. Il progetto è sempre figlio del contesto in cui si opera – questo per dire che l’esperienza radicale degli Anni ‘60/’70 non si riproporrà mai più in quegli esatti termini. Secondo me, ciò che oggi presenta comunque un elemento di continuità con quel passato è portare dentro l’ambito progettuale la grande crisi ambientale. Quest’ultima è la dimostrazione chiara dei limiti della società capitalista che combattevamo allora – e che è ancora necessario combattere oggi, poiché porta alla distruzione della vita sul pianeta.

Cosa possiamo fare? Poco, se ognuno si limita ad operare nel suo piccolo; molto, invece, se come società decidiamo di non accettare come ineluttabile il destino che si dispone dinanzi a noi. Non dobbiamo rinunciare ad avere un’intelligenza critica, né tanto meno ad adoperarla per produrre cultura critica e progetti critici. Dobbiamo produrre idee capaci di contenere il più possibile i disastri che via via stanno maturando nella società e nella vita del pianeta».

Secondo lei quali sono i limiti e le opportunità del design oggi nell’affrontare la crisi ambientale?

Partiamo da una considerazione: il progetto è politico, sempre. Ogni scelta progettuale, dichiarata o meno, cosciente o meno, voluta o meno, è espressione di un interesse politico. Viene da sé che, se l’interesse del progetto medio odierno sia difendere lo stato presente delle cose e i rapporti di potere che esso manifesta, quell’idea e chi l’ha avuta non hanno né la sensibilità né la voglia di dedicarsi all’Eco Design. O meglio, si interessano a questo approccio quando lo vedono come un’opportunistica copertura che li legittima a fare quello che hanno sempre fatto e che vogliono continuare a fare. Tutto questo genera una gran confusione; così, finisce che definiamo sostenibili scelte che in realtà non lo sono, compiendo allo stesso tempo un’operazione di profonda mistificazione: nascondiamo la verità sotto strati colorati, nelle tinte rassicuranti che la gente vuole vedere.

C’è un tema che oggi ritengo fondamentale: dobbiamo smettere di accettare acriticamente il falso nella comunicazione. Torniamo a rivendicare il bisogno di una verità; una verità concreta, fattibile, verificabile. Perché oggi, più che mai, la verità è anche drammatica; basti pensare alla distruzione delle risorse del Pianeta o al fatto che intere popolazioni vengano annientate per meri interessi economici. Non possiamo più accettare le narrazioni che le strutture di potere diffondono per legittimare la mostruosità del nostro tempo. Noi progettisti possiamo fare poco, ma quel poco che possiamo fare, secondo me, dobbiamo farlo.

Lei come cerca di trasmettere ai suoi studenti la sua visione e il ruolo che deve avere il progettista nella società contemporanea?

Tengo da diversi anni un corso di Eco Design all’ISIA di Firenze. Quest’anno ho deciso di affrontare nelle mie lezioni il tema delle foreste urbane. È un argomento che trovo molto interessante, perché è concreto e propone una visione alternativa della città sfidando la tradizione del moderno — tema contro cui ho sempre lavorato e continuo a lavorare.

Il degrado ambientale è una conseguenza della grande produzione in serie, del mito delle grandi fabbriche e di quello del benessere che queste avevano contribuito a costruire. Oggi ci troviamo di fronte a una prospettiva sempre più drammatica di inabitabilità del pianeta, una situazione che punisce in modo crescente i meno privilegiati e salva, chissà ancora quanto a lungo, i privilegiati. Basta guardare gli eventi climatici estremi, come i wildfires in California: hanno distrutto tutto, dalle case dei poveri alle ville di Hollywood. La crisi ambientale non perdona nessuno, anche se certamente colpisce di più i soggetti più fragili.

Progettare oggi significa farsi carico di verità inconfutabili come questa, che se ne sta sotto gli occhi di tutti. Progettare significa contribuire, sia attraverso l’azione che attraverso il consenso, focalizzandosi su approcci e prodotti ecologicamente validi e motivati. Queste tipologie di oggetti e contenuti rappresentano una vera e valida ragione a cui asservire le nostre capacità di designer.

Questo significa cambiare radicalmente le scuole, specie quelle di Progettazione. Le scuole di Design sono ancora strutturate per insegnare a seguire e a comprendere quello che dice il mercato, che altro non è la difesa dello stato presente e della sua insita iniquità. Cerco di proporre progetti che vadano contro questo status quo, e che cerchino di mettere in discussione l’adesione acritica ad esso. Vorrei stimolare gli studenti a interrogarsi su perché oggi ci sono guerre, distruzione degli ecosistemi, spreco di risorse, e perché si continua a dire che “Tanto non importa”.

Cosa si augura per la nuova generazione di progettisti?

Voglio che i miei studenti sappiano quanto incida il peso della propria decisione e delle proprie responsabilità. Perché sappiamo che l’umanità è responsabile nella situazione climatica attuale, non per niente viviamo nell’Antropocene. È letteralmente l’epoca in cui l’uomo si è impossessato del pianeta e ne sta distruggendo le possibilità di vita – ma soprattutto, e spesso lo dimentichiamo, stiamo distruggendo le nostre. Nostre in quanto specie ovviamente perché, per quello che mi riguarda, ho più di ottant’anni (sospira, sorridendo laconico). Comunque, trovo paradossale che non ci si renda conto che stiamo distruggendo l’unico ecosistema in cui, come specie umana, riusciamo a sopravvivere in qualche modo.

È difficile però far capire che tutto questo dovrebbe essere una delle forze motrici fondamentali – se non quella guida – della progettazione e dei suoi approcci attuali. Invece le scuole di Design continuano a basarsi sul Marketing e sulle vendite e non se ne esce. Se si pensa in funzione del mercato non c’è niente di nuovo e di disruptivo da progettare: si riconferma soltanto quello che c’è già, e che già sappiamo che andrebbe rivoluzionato. Quindi quel poco che riesco a fare, lo faccio in questa direzione.

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