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Quello che possiamo sapere. Il presente va visto da lontano

Per rendersi consapevoli del presente occorre spostarlo molto in avanti, poi guardarlo dalla lunga distanza. E allora ben venga la distopia, se serve ad allarmare le coscienze rispetto alle attuali congiunture: cambiamenti climatici, guerre, riarmo, pandemie, crisi della democrazia e tant’altro. Spesso sorge il dubbio se non sia in atto un’apocalisse distribuita in comode rate, del tipo prendi ora e paghi domani.

Di questa presa di coscienza intende parlare Ian McEwan con il romanzo “Quello che possiamo sapere” (Einaudi, traduzione di Susanna Basso) prefigurando un ‘dopo’ che è, insieme, severo giudizio sul ‘prima’ e colpevole rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere. “Non chiamatemi profeta. Ho semplicemente provato a scrivere un romanzo dei nostri tempi”, ha dichiarato l’autore, che, nella sostanza, ha prodotto una storia di forte impatto politico ed etico.

Siamo dunque nel 2119. Del mondo resta ciò che è scampato a un “Grande Disastro”. Tra le cose superstiti, la Bodleian Library dell’Università di Oxford, una delle più antiche biblioteche pubbliche del mondo moderno, trasferita in Snowdonia per salvarla dalle inondazioni. Ne è un assiduo frequentatore Thomas Metcalfe, studioso di letteratura con particolare interesse per quella compresa tra il 1990 e il 2030.

È alla Bodleiana che si reca nuovamente nel maggio 2119 sperando di scovare una pur piccola traccia che attesti l’esistenza dell’introvabile ‘Corona per Vivien’, componimento poetico di Francis Blundy, scritto e declamato nel 2014, dunque un secolo prima, in occasione di un compleanno della moglie Vivien, festeggiato insieme agli amici nel casale dei Blundy. Un evento che in seguito sarebbe stato definito “Secondo Immortal Convivio” evocando il banchetto avvenuto ancora un secolo prima, nel 1817, cui avevano partecipato Keats e Wordsworth.

Thomas Metcalfe consulta carte, legge tutti i diari di Vivien (12 volumi), corrispondenze, appunti, ma di ciò che si diceva essere un capolavoro assoluto di costruzione poetica non trova nulla. Forse, come altri hanno già fatto, dovrà rassegnarsi alla sua inesistenza. Nel compulsare quelle carte, si addentra, però, in segreti e misteri altrui – frustrazioni, amori, compromessi, persino un crimine – che portano a confondere l’acribia del filologo con l’ossessione del detective. E chissà, se anche la scomparsa della ‘Corona’ non sia ben altro di un giallo letterario.

È così che, sullo sfondo di una catastrofe ambientale dalla quale sono stati miracolosamente salvati pezzi di memorie, racconti di vite, McEwan architetta un romanzo dove la ricerca (vana?) di un testo poetico conduce fin dentro i tormenti di una storia d’amore, spinge a indagare su un delitto rimasto impunito. Ma soprattutto induce a interrogarci sulle molte verità nascoste (e se valga davvero la pena che siano svelate); su cosa crediamo di conoscere e non conosciamo degli altri, della storia (la cosiddetta verità storica), di noi stessi; su ciò che sia giusto pretendere e sperare. Perciò il presente va guardato perlomeno dalla soglia del ‘dopo’. È un esercizio di intelligenza, sensibilità, altruismo, perché è da lì che comincia il futuro.

***

Il 20 maggio 2119 presi il traghetto della notte da Port Marlborough e nel tardo pomeriggio arrivai al piccolo attracco nei pressi di Maentwrog-under-Sea che serve la biblioteca Bodleiana nella Snowdonia. Era una giornata primaverile tiepida e senza vento e il viaggio era stato tranquillo, anche se, come è facile immaginare, dormire seduti su una panca in doghe di legno è un supplizio. Percorsi le due miglia del pittoresco tragitto che conduce alla funicolare a propulsione idrica e forza di gravità. Si unirono a me quattro utenti della biblioteca con i quali chiacchierai del più e del meno mentre venivamo trasportati a un migliaio di piedi su per il monte, nella scricchiolante cabina in legno lucido di quercia. Cenai da solo nel refettorio della biblioteca, poi chiamai la mia amica e collega Rose Church per informarla che ero arrivato sano e salvo. Quella notte riposai bene nella mia stanza monacale. A differenza di quanto era accaduto durante la mia prima visita, dover condividere il bagno con altre sette persone non mi diede fastidio.

Dopo colazione, un assistente archivista, Donald Drummond, mi scortò alla mia postazione. Poiché il suo settore di competenze copriva il periodo di cui mi occupavo, dal 1990 al 2030, era molto interessato all’oggetto della mia ricerca, inadeguatamente noto come Secondo Immortal Convivio, col suo celebre poemetto perduto, Una Corona per Vivien di Francis Blundy. Avere qualcuno che andava a prendermi questo e quel documento dagli scaffali era utile, ma la sollecitudine di Drummond, e quel suo modo di bloccarsi a bocca aperta a metà di una frase su parole di poco conto come una preposizione o un articolo, mi innervosivano. Sospettavo in lui la minaccia di un’intelligenza feroce. Parlava troppo di una nipote quattordicenne che era un prodigio matematico. E insisteva nel chiedermi consigli, cosa che mi portò a credere che stesse scrivendo qualcosa a sua volta. Per parte mia, non facevo che peggiorare la situazione mostrandomi esageratamente garbato nel tentativo di mascherare l’antipatia.

Su mia richiesta, mi portò dall’archivio di Vivien Blundy i dodici volumi dei suoi diari che, per ragioni tuttora ignote agli studiosi, erano rimasti a lungo imboscati in mezzo a quelli del marito. Non appena fui solo, aprii il raccoglitore ermetico e ne estrassi il quinto volume. Andai a pagina trentadue. Avevo bisogno di rileggerla. «Le cose tra me e Francis sono sistemate. Sono quasi sempre felice qui. Un traguardo». Si riferisce al tragico caso del suo primo marito, Percy Greene, affetto dal morbo di Alzheimer.

Era certa dell’amore di Francis e, malgrado nessuno dei due fosse giovane e lui avesse dieci anni più di lei, potevano contare su una «discreta vita sessuale» e sull’abbondanza di argomenti di conversazione. In nessuna parte dei diari, Vivien rimpiange di avere sposato il grande poeta, anche se lui trascorreva la maggior parte del tempo chiuso nel proprio studio. In un altro passaggio scrive: «Mi chiedo se qualche volta non mi dia piacere detestarlo». Entro il settimo volume erano sposati da nove anni. Nei primi tempi, Vivien si era mantenuta «sana di mente» facendo ricerche per il suo secondo libro, che in seguito avrebbe abbandonato. Quando ancora lavorava a Oxford, aveva pubblicato una biografia del poeta John Clare, rielaborando il materiale della sua tesi di dottorato. Insegnare le piaceva. Diversi anni dopo, la sua condizione suscitava stupore fra gli amici. Attraverso una serie di successive decisioni, era finita in una piccola valle sperduta nella campagna del Gloucestershire, dove lavorava senza compenso, lontana quattro miglia dal più vicino villaggio, in un tenebroso casale stipato di settemila volumi. Mai avrebbe immaginato di poter abbandonare una carriera, una vocazione perfino, per mettersi al servizio del genio di un altro.

Nel primo pomeriggio di un giorno d’ottobre del 2014, mentre «il vento forte impazza tra i rami di un albero fuori della mia finestra», Vivien Blundy si trovava nel suo studio, in un’ex stalla per la mungitura separata dal Casale. Probabilmente stava compilando la lista degli ingredienti da acquistare per la cena che aveva intenzione di cucinare l’indomani in occasione del suo compleanno. L’avrebbe servita alla festicciola alla quale aveva invitato otto amici. La disposizione degli ospiti doveva essere già pronta. Più tardi nel corso della serata avrebbero ascoltato suo marito leggere una nuova lunga poesia che doveva essere il suo regalo di compleanno. Non viveva come un’umiliazione il dover fare la spesa e cucinare. Vivien era di natura generosa, e amava far contenti gli altri. Le piaceva preparare un buon pasto. Una casa ordinata le dava soddisfazione. Francis non le aveva mai fatto pressione affinché diventasse la sua segretaria, né l’aveva mai incoraggiata ad abbandonare la carriera, anche se era evidente che la cosa gli stava bene. A ogni passo successivo era stata lei a prendere le decisioni, per fondati motivi che tuttavia al momento apparivano meno solidi. C’erano voluti anni. Partita come docente, candidata a una cattedra, era passata a un part-time, poi all’occasionale lettorato presso una scuola estiva americana e infine al lavoro sul secondo libro, portato avanti finché non aveva accettato l’idea che non sarebbe approdata a niente. Lasciar perdere era stata una liberazione. Aveva sempre sentito di avere il controllo. A stupirla semmai era constatare come, all’inizio per occuparsi del primo marito, e poi in nome della libertà, del disincanto nei riguardi del mondo accademico o dell’entusiasmo verso la poesia di Francis Blundy, si fosse negata ambizione, stipendio, status e gloria.

 

[da Quello che possiamo sapere di Ian McEwan, trad. di Susanna Basso, Einaudi, 2025]

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