Come certe canzoni d’autore dove sono state le parole a far nascere la musica, nel nuovo romanzo di Alice Zanotti, “Scintille” (Nottetempo), sembrano le parole ad avere generato la storia. Parole magiche che introducono in un mondo a parte, geloso del proprio esistere e di esistere ostinatamente a modo suo.
Questo piccolo mondo si chiama Montefosca, nel Friuli-Venezia Giulia, paesino adagiato in una conca al confine con la Jugoslavia, nascosto da montagne e boschi. Fino al 1959, anno in cui fu costruita una strada, era raggiungibile solo a piedi o in teleferica.
Qui vivono le sorelle Kokulčua, Alma, Anna e Buia. Sono loro a raccontare la propria infanzia ormai prossima all’adolescenza (Buia è la più prodiga di confidenze) svelando quel mondo a parte che prima dicevamo. Un altrove conchiuso ed escludente, a cominciare da come gli abitanti si parlano, con una lingua (un mesto, cantilenante dialetto di impronta slava) che potrebbe definirsi ‘lingua di servizio’, concreta, bastevole a definire le cose di tutti i giorni, il lavoro, le incombenze. Un vocabolario che non ha termini per esprimere concetti o sentimenti.
Quando le tre sorelle parlano tra loro e non vogliono farsi capire dagli altri, usano l’italiano. Perché loro buona parte dell’anno la trascorrono lontane dal paese, in un collegio di città. E già il possesso di una doppia lingua consente, anche mentalmente, di entrare e uscire con più facilità dal borgo natale, percepirne la distanza non sola geografica, la disincronia con quanto è ‘fuori’; non di meno la bellezza, la nostalgia che attanaglia quando se ne è distanti. Anch’esse, però, patiscono la mancanza o l’incomprensione di parole che esprimano sensazioni, sentimenti, pensieri. Come quando Buia sperimenta i primi sussulti amorosi per Pietro, ma non trova nel proprio lessico ciò che possa definire quel moto di felicità. “Chiamatemi Buia” – confiderà – perché “dentro il mio corpo ho il buio delle parole che non capisco”.
Al repertorio verbale di Montefosca manca inoltre la parola ‘progresso’. Nel nome del quale è in costruzione la strada che (finalmente?) unirà il paese alla valle. I lavori procedono, ne giungono i rumori, si abbattono alberi, spianano prati: “Gli altri non sentono più la voce delle montagne perché un altro rumore li distrae, un rumore che noi non vogliamo ascoltare. È il rumore della strada che mastica, e che a fine estate raggiungerà il paese. Un rumore di ferro, di taglio, di ferita.” Allora le tre sorelle ingaggiano una loro fanciullesca guerra di rami e fuoco contro “La strada [che] spezzerà in due il nostro paese e i nostri cuori”.
Il romanzo di Zanotti – accurato lavoro di scrittura che procede per metafore, simboli, reiterazioni, cesello linguistico – è una intensa allegoria sulla forza delle identità collettive e della loro memoria; sul ‘piccolo’ e l’universale, il dire e l’indicibile; sulle parole salvavita.
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Le nostre voci, una sopra l’altra, sono vive, accendono il fuoco. Le nostre voci sono come i rami. Nella nostra lingua vive la scintilla. È lì sulla punta, accende. Le nostre voci sono umide, morbide, sono come il muschio, talvolta invece graffiano come la corteccia ma possono anche diventare sottili, uguali all’erba del campo. Le nostre voci, capita, tagliano via – proprio come il filo d’erba che spezza la pelle in due. Poi esce il sangue. Anche il sangue che esce dal dito è un filo. Le nostre voci, una sopra l’altra, sono i rami secchi, i rami sottili, i rami corti, i rami lasciati a prendere il sole per tutta l’estate. Sono i rami giusti per accendere il fuoco.
Noi siamo tre, siamo sorelle, viviamo tra le montagne. Noi parliamo anche la lingua delle montagne che sono tre, come noi. Nessuno ascolta più la loro voce e noi sappiamo perché. Noi l’abbiamo scelto, non parliamo a turno, parliamo insieme, come le montagne parlano insieme. Noi parliamo una lingua che qui pochi conoscono. Diciamo, In pochi si ricordano le parole delle montagne, prima le sentivano parlare, ora le loro voci sono solo sfruscii di bosco, ali di uccelli. Gli altri non sentono più la voce delle montagne perché un altro rumore li distrae, un rumore che noi non vogliamo ascoltare. È il rumore della strada che mastica, e che a fine estate raggiungerà il paese. Un rumore di ferro, di taglio, di ferita. Tutti in paese dicono, La strada spezzerà in due il nostro paese e i nostri cuori.
La nostra è la lingua come delle montagne quando bisbigliamo, è la lingua della maestra della scuola, noi parliamo la lingua del prete quando dice messa. È una lingua che qui non conosce nessuno, che pochi hanno imparato e poi scordato. Qualche volta sussurriamo parole vive fatte di vento, scricchiolano come foglie calpestate nel bosco in autunno. Altre volte capita che le nostre parole rotolino giù dalle montagne, pezzi aguzzi di roccia che vogliono distruggere tutto. Noi vogliamo salvare, noi vogliamo distruggere. Noi spesso non sappiamo cosa vogliamo. Parliamo di giorno, insieme, in italiano, per non farci capire. Le parole, a volte, le soffiamo, altre volte le urliamo ma solo dove siamo sicure che nessuno possa sentirci. In mezzo, nel bosco, sul bordo del torrente, le nostre voci si uniscono al turbine dell’acqua. I vecchi, invece, parlano una lingua che si parla solo qui.
È un dialetto slavo, antico, che viene da chissà dove, e che assomiglia a una cantilena: le parole, una dietro l’altra, non si staccano tra loro. Il dialetto di qui sembra un canto. I vecchi, quando parlano, sembrano sempre tristi. Parlano poco di giorno mentre la sera urlano quando giocano a morra in osteria. Tutto quello che non hanno detto di giorno lo strillano lì. Parlare di giorno, mentre si fatica, toglie l’aria dalla gola, fa soffocare. I vecchi risparmiano sulle parole, lassù al campo, mentre salgono a piedi, mentre scendono giù quando arriva il tramonto. Mentre falciano non dicono nulla. Noi siamo Alma, Anna e Buia. Di notte cuciamo le nostre voci al buio, le tessiamo con ago e filo di fantasia alle foglie del granoturco. Le foglie escono dai buchi dei nostri materassi. I nostri materassi sono imbottiti con le foglie, quelle che tenevano insieme le pannocchie, foglie che hanno la stessa forma delle nostre mani che pregano. Le foglie che l’estate ha seccato di notte frusciano, ognuna schiacciata dal peso dei nostri corpi leggeri.
Noi ci esercitiamo tutti i minuti e tutti i secondi a parlare italiano, perché pensiamo che non resteremo qui per sempre. Noi vorremmo restare qui per sempre, diciamo. Poi diciamo che in realtà non resteremo qui per sempre. Raccontiamo bugie a noi stesse. Resteremo qui per sempre; andremo via per sempre. Queste due frasi, dette a voce alta, hanno lo stesso peso, la stessa misura. Le nostre voci sono rami e diventano foglie, di giorno incitano l’incendio, le nostre lingue di giorno bruciano e fanno paura. I vecchi hanno paura di noi perché non ci capiscono. Di notte, invece, le nostre voci si spezzano per il sonno, per la fatica che abbiamo fatto al campo, da dopo pranzo fino all’ora di cena. Le nostre voci diventano polvere, di notte le nostre parole sono grani di polvere. Ma lo riusciamo a sentire, nelle nostre voci spente ci sono ancora le braci, il nostro fuoco di notte si nasconde soltanto, è lì sotto. Di notte nelle nostre voci ci sono anche le ombre, ombre di buio a brandelli che tremano dagli scuri della finestra.
La nostra stanza dai soffitti alti e una sola finestra di strisce di ombre. Buia, di notte, parla con le ombre, non parla con noi. Strilla alle ombre nostra sorella più piccola, Voglio essere una rondine, dice. Voglio andar via appena comincia il freddo, nel momento preciso in cui l’estate finisce con la prima pioggia gelida. Buia non vuole che l’estate finisca perché, a settembre, tutte e tre andremo in collegio. Per lei sarà la prima volta. Noi in collegio non ci vogliamo andare. Preferiamo i campi ghiacciati dal freddo, preferiamo dormire in uno stesso letto per tenerci caldo. Noi tre siamo nate una dietro l’altra, pochi anni ci distinguono, Io sono la più piccola, dice Buia, a me papà perdona ancora molte cose, ma sono sempre di meno. Sopra la nostra cameretta, nel solaio, lassù nelle travi, fanno il nido le rondini. Poi scappano via.
Il loro ultimo volo ci rende tristi, come il nostro. Anche noi a settembre partiremo, dell’estate rimarrà l’odore solo sui vestiti che metteremo nei cassetti. L’odore dell’estate non verrà con noi in collegio, il sole invernale, con i suoi denti, si mangerà tutti i ricordi. Lottare per non dimenticare quel sole ci farà venire fatica nella testa e anche nelle punte delle dita. E proveremo a tirar su un pensiero alla volta, saranno pensieri caldi che ci porteremo a uno a uno nel letto con noi. Lo stesso faranno le nostre compagne, per non avere freddo in gennaio nei nostri lettini singoli. Tutte sappiamo che la coperta di lana non basterà a proteggerci dal gelo che entra dalle finestre del collegio. I pensieri dell’estate sì, entrano e scaldano, perché sanno di fieno e di latte e di quel sole che arrossa le mani e brucia le nostre guance. Io non voglio andare in collegio, non lasciatemi mai da sola, mai, dice Buia, parlando a noi e alle ombre.
[da Scintille di Alice Zanotti, Nottetempo, 2025]