Adania Shibli è apprezzata autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi. Nata in Palestina – vive tra Londra e Ramallah – le è riconosciuta una capacità narrativa di spiccata originalità attraverso cui ha spesso narrato il dramma della sua terra, una negata patria, da decenni dentro l’incubo della guerra. Ed è questa tragedia infinita, alienante, che succhia vita, ad essere raccontata da Adania Shibli nel romanzo “Sensi”, ora pubblicato da La nave di Teseo con la traduzione di Monica Ruocco.
La giovanissima protagonista non ha un nome, è detta semplicemente ‘la ragazzina’, così come non hanno nome i suoi famigliari, le persone, i luoghi. Nemmeno il tempo in cui si svolge la vicenda è definito. Perché tutto – spazi, tempo, cose, esseri umani – è stato privato di un’identità. Si vive nell’inedia della sottrazione, senza passato né futuro, con sentimenti e affetti di necessità paralizzati. L’esistenza a mala pena ha la prospettiva di giungere alla fine della giornata, perciò se ne sta rattrappita e indolente in frammenti di tempo che paiono compiersi in sé e per sé, senza effettive ragioni di senso. Una dimensione alienante – dicevamo – per sopravvivere alla crudezza della realtà.
Anche la ragazzina, che si avvia a crescere in un microcosmo dove vita, amore, scoperte sono così terribilmente contigui alla morte, cerca di dotarsi di proprie difese. Lo fa concentrandosi sulle piccole cose, traendo da esse tutto il percepibile (da qui il titolo “Sensi” e i cinque capitoli intitolati “Colori”, “Silenzio”, “Movimento”, “Lingua”, “Muro”).
Il libro rifugge da un consueto impianto narrativo. Procede per quadri, scene che si aprono e subito si richiudono; proprio a rendere l’idea di un tempo frammentato, sospeso, entro il quale stanno, pressoché inermi, cose e persone. Già l’incipit ci introduce non tanto a un paesaggio, ma ad uno stato d’animo: “Il grande serbatoio d’acqua poggia su quattro piedi e, da lontano, somiglia a una formica perfettamente immobile. Un tempo era di un colore diverso. Ha resistito finché è stato attaccato da una piccola macchia di ruggine che si è allargata sempre di più e lo ha ricoperto tutto di marrone. Dietro a uno dei sostegni del serbatoio sta ferma in piedi la ragazzina”.
La scrittura – scarna e misurata anche laddove raggiunge effetti di un certo lirismo – risulta a perfetto servizio del racconto che vuole dire l’arrendevolezza dinanzi a quanto viene sottratto: vita, identità, terra, memoria, futuro.
Nella ragazzina che “tende bene le orecchie sul fratello morto” e che pensa come “il silenzio è ormai la sua unica forma di esistenza per l’eternità”, va a riassumersi il dramma di un popolo condannato a non avere pace. Ma è davvero possibile che a quella ragazzina non sia dato di sognare un futuro?
***
Hanno trovato tutti qualcosa di nero da indossare, tranne la ragazzina. Cominciano a cercare un vestito nero tra le sue cose, poi tentano di improvvisare. La ricerca fa quasi dimenticare alla famiglia il dolore del lutto, così decidono che dovrà arrangiarsi da sola.
L’anta di legno dell’armadio non si chiude bene, perché più nessuno l’ha riparata o si è preoccupato di farlo.
La ragazzina getta tutto quello che trova nello stretto spazio tra l’armadio e i letti. Il mucchio di vestiti rimane multicolore, al contrario di quello che aveva detto il severo maestro di disegno, e cioè che tutti i colori mischiati insieme danno il bianco.
Vincono, per essere la cosa più vicina al nero, un paio di pantaloni di velluto blu scuro e una camicia di lana che, al blu scuro, alterna piccole fibre di altri colori. Solo dopo averli indossati si accorge che i pantaloni hanno un buco sul ginocchio sinistro.
Sulla strada per la moschea compra una bottiglia di Coca-Cola avvolta da una fascia rossa. Il liquido che c’è dentro è nero o, almeno, è più nero di qualsiasi altro colore attorno a lei. Continua a camminare con la bottiglia nella mano destra, mentre con la sinistra copre il buco nei pantaloni.
È l’ultima a entrare nel cortile della moschea. Quando arriva, scopre che la madre è svenuta ed è stata portata nell’ambulanza parcheggiata sul retro, così si dirige da quella parte.
Il portellone posteriore dell’ambulanza è aperto, ma non riesce a raggiungerlo a causa di tutte quelle donne vestite di nero che formano un muro spesso e impenetrabile. Non riesce neppure a vedere la punta delle scarpe di sua madre: più la folla di donne in nero si infittisce, più lei viene ricacciata indietro con i suoi vestiti blu scuro. Non ce la fa più, mentre con la mano destra regge la bottiglia e con la sinistra copre il buco. Non può assolutamente spostarla, altrimenti tutti lo noterebbero.
Gli spintoni diventano sempre più forti e ogni volta la mano si sposta dal buco, allora preme sempre di più, con tutta la forza, anche con la mano destra che si indebolisce e non riesce a tenere dritta la bottiglia. A ogni passo indietro un po’ del liquido nero esce di fuori. Non devono vedere il buco.
All’estremità del cortile si alza il muro della moschea, che ora si trova alle spalle della ragazzina e le impedisce di essere spinta ancora più indietro. Resta lì, a guardare verso l’ambulanza il cui colore bianco non si vede più, coperto com’è dalla cortina nera delle donne.
[da Sensi di Adania Shibli, trad. di Monica Ruocco, La nave di Teseo, 2025]