Debuttava l’ultimo decennio del Novecento quando in Italia divampò lo tsunami giudiziario che avrebbe messo allo scoperto un diffuso sistema di corruzione: politica e imprenditoria collusi in un disinvolto e abituale traffico di tangenti. L’operazione intrapresa dalla magistratura prese il nome di “mani pulite” mutuando l’espressione da una battuta pronunciata nel film di Francesco Rosi “Le mani sulla città” (1963). Presso la Procura di Milano nacque il “pool mani pulite” e nel giro di qualche anno si giunse, nei diversi tribunali italiani, a 1300 pronunciamenti tra condanne e applicazioni di pena patteggiate tra le parti.
Tutto era iniziato il 17 febbraio 1992 con l’arresto, nel capoluogo lombardo, del presidente del Pio Albergo Trivulzio, storica residenza per anziani meno abbienti. Il presidentissimo era solito esigere dagli imprenditori con cui aveva a che fare tangenti pari al 10% del valore di un appalto. Il titolare di un’impresa di pulizie, stufo dell’andazzo, decise di rivolgersi alla Guardia di Finanza. Così quel giorno si presentò con il contante dentro la valigetta (7 milioni di lire, prima tranche dei 14 pretesi) ma anche con telecamera e microfono nascosti. Appena consegnate le banconote ecco l’irruzione delle Fiamme Gialle. Poiché anche le vicende più drammatiche non sono immuni da comicità, il tangentaro colto in flagranza di reato rifugiò in bagno per smaltire dentro il water le mazzette di carta moneta appena intascate.
In un clima di indignazione popolare, la cosiddetta Tangentopoli rivelò come in quell’intrigo smodato di affari pubblici e privati, fosse stata creata una consolidata prassi di finanziamenti illeciti alla politica. Alcuni dei principali partiti si sciolsero. Fu la fine della Prima Repubblica. Le vicende di Tangentopoli sconvolsero le vite di molte persone, talvolta con risvolti tragici (si pensi ai suicidi di chi non resse allo scandalo). Accadde pure che le colpe dei padri ricadessero in vari modi sui figli. Ed è proprio ciò che racconta il romanzo di Laura Marzi “Stelle cadenti” (Mondadori).
In tal caso i fatti si svolgono a Torino nel 1993. Ludovica e suo fratello Edoardo sono due ragazzi di famiglia benestante. Lei, quasi diciottenne, è una militante di sinistra. Frequentano il liceo, vestono abiti griffati, abitano un appartamento con mobili di pregio, sono accuditi affettuosamente da Rosa, la domestica che fa le veci della madre, impegnatissima nel lavoro di dirigente comunale. Il padre, Arturo Montella, è socio di uno studio di commercialisti, ma soprattutto è il segretario regionale della Democrazia Cristiana e vice presidente della Giunta regionale.
La patinata esistenza della famiglia Montella implode repentinamente il giorno in cui il padre viene arrestato per corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Dopo alcuni mesi verrà scarcerato poiché opta per il patteggiamento, dunque ammette la propria colpevolezza. Condannato, così, a diventare il signor Nessuno: fine di privilegi, prebende, status sociale, amicizie che tali non erano. Di tutta la storia è interessante il punto di vista di Ludovica (voce narrante) per come – sì coinvolta, ma anche critica osservatrice – riferisca le vicende e come esse abbiano segnato per sempre lei e suo fratello. Ovvero la generazione che subì le dirette conseguenze di quella disgraziata stagione, pagando con il disincanto le loro scelte, idee, sentimenti.
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Ogni anno nostro padre accompagnava a turno me e mio fratello ad acquistare delle nuove scarpe da ginnastica. Quando lo arrestarono stava tornando a casa con Edoardo: lo aveva portato a comprare le Nike.
Fu la signora che si occupava di noi e della casa, Rosa, a raccontarmi che, quando arrivarono al portone, i carabinieri, che erano evidentemente appostati sotto casa nostra, si accostarono e gli chiesero di andare con loro. O gli dissero: “Dottor Montella, lei è in arresto”? Non gliel’ho mai chiesto, non l’ho mai chiesto neanche a mio fratello che era accanto a lui, bellissimo, con i capelli lunghi fino a metà schiena, neri, a boccoli composti.
Chissà se le due guardie furono contente di essere il braccio di una rinnovata giustizia italiana, che finalmente tagliava la testa del sistema politico che per oltre quarant’anni aveva governato e derubato il Paese. Chissà se furono ancora più fiere vedendo che l’esemplare di quel sistema che stavano conducendo alla giusta punizione, mio padre, permetteva a un figlio maschio di portare i capelli lunghi come una donna.
Che cosa avrei fatto se fossi stata al suo posto? Se invece di Edoardo, allora così succube dell’autorità di mio padre, ci fossi stata io, che a quel tempo ero leninista e quando occupavamo scuola e la Digos veniva a sgomberarci mi scagliavo contro i poliziotti?
Quando usai la parola “celerino” in una delle innumerevoli occasioni in cui litigavamo per questioni politiche, mio padre si alzò in piedi urlando: «Non osare!». Fu l’unica volta che interruppe lo scontro, schifato dal mio anacronismo. Chissà se avessi insultato i carabinieri che lo portavano via di chi avrebbe preso le parti. Lo so, le loro.
Avevo quasi diciotto anni e durante la settimana avevo l’obbligo di rientrare a casa entro le 18.30. A pranzo io e mio fratello, di un anno più grande, mangiavamo da soli, o meglio stavamo seduti a tavola mentre Rosa ci serviva il pasto e poi si indaffarava subito a fare qualcos’altro: stirare, stendere i panni, lavare e cambiare le tende…
Quando eravamo bambini si concedeva di sedersi con me e Edoardo sul divano a guardare insieme Lady Oscar. Io mangiavo un Danette alla vaniglia, come i veri supereroi. Mettevo la testa sul suo seno, Edoardo l’abbracciava dall’altro lato ed eravamo sereni, due bambini accoccolati con la mamma, anche se finta.
Nostra madre lavorava ogni sera fino a tardi: era una dirigente comunale e si occupava dell’organizzazione di eventi culturali. Le piaceva il suo lavoro, e le ore in cui guardava e selezionava film d’essai erano un tempo libero da noi, dai Montella, dalla sua famiglia, e lei decideva di protrarlo il più possibile, ogni giorno, rientrando sempre a casa per ultima.
Nostro padre era socio di uno studio di commercialisti, ma soprattutto era il segretario della sezione regionale della Democrazia Cristiana, nonché vicepresidente della giunta regionale. Ci teneva a rincasare in tempo per andare a fare la spesa, anche se poi molto spesso usciva di nuovo, a cena o dopo, per le infinite riunioni della sua vita: ogni giorno, però, cercava di non mancare l’obiettivo di recarsi al supermarket sotto casa e riempire due buste con prodotti di marca. I tortellini, la salsa, i biscotti, le marmellate. Non comprava quasi mai la carne né le verdure, credo perché non avevano il giusto potenziale estetico, nessuna eleganza.
Quel giorno di febbraio aveva di certo intenzione di salire a casa con Edoardo, lasciare la ventiquattrore e poi andare a comprare altre cose con cui riempire il nostro frigo già stracolmo, mentre io tornavo a casa con le guance arrossate per l’aria fredda dell’inverno torinese. Invece lo arrestarono.
Rosa cucinò lo stesso quella sera, una zuppa di fagioli, ma nessuno la mangiò. Suo figlio, che spesso la passava a prendere ma la aspettava in strada, salì in casa. Si sedette sulla sedia a capotavola in cucina e le disse, mentre lei stava ai fornelli e un po’ mescolava, un po’ piangeva, che aveva già sentito la notizia alla radio: il dottor Arturo Montella era stato portato nella casa circondariale. Pensai a quanto fosse assurdo che chiamassero la prigione “casa” e glielo dissi. Lui, che aveva sempre avuto imbarazzo a guardarmi e che ogni volta che incontrava mio padre sorrideva agitato e accondiscendente, quella volta mi osservò sereno e indifferente, sembrava quasi contento.
Caricò in macchina me e mio fratello, come due pupazzi ben vestiti, e ci portò a casa di Rosa, che aveva deciso che era meglio passassimo la serata da lei.
La luce della sua cucina era più fioca di quella della nostra e c’era meno spazio, o forse era accorsa troppa gente: i figli di Rosa parlavano di strategie legali, ipotizzavano tipi di pene o di assoluzioni. Dalla televisione accesa, intanto, per la prima di tante volte Claudio Brosio, leggendo dal taccuino in cui ogni giorno annotava i nuovi arresti, nominò Arturo Montella. Disse che era accusato di corruzione e di aver ricevuto denaro per finanziamento illecito al partito, che era stato tradotto in carcere in serata e che l’indomani avrebbe avuto il primo interrogatorio col GIP. Imparai presto cosa fosse un GIP: giudice per le indagini preliminari.
Davanti alla tv, quella sera, la parola GIP mi fece pensare a Cipì, il libro preferito di Edoardo quando eravamo bambini, e vidi sovrapporsi alla faccia del passerotto protagonista del testo di Mario Lodi quella di mio padre, con la barba, la cravatta e due ali gialle piccolissime: “Cipì, Cipì, voglio uscire da qui”. Scoprii che era stato proprio il GIP a richiedere l’arresto di mio padre.
Non vidi mia madre quella sera: né io né Edoardo provammo a cercarla, sapevamo che era andata direttamente dal suo ufficio a quello dell’avvocato.
[da Stelle cadenti di Laura Marzi, Mondadori, 2025]