Marco Tognetti è docente di Economia e Design Management all’ISIA di Firenze. I suoi studi provengono dall’economia dello sviluppo e la sua attività lavorativa spazia dall’ambito del design dei servizi alla progettazione urbana. Abbiamo posto lui qualche domanda in merito alla rigenerazione urbana legata a Firenze, alla presenza di industrie nel territorio in un’ottica di inserimento nella comunità e altri temi correlati.
Che cos’è la rigenerazione urbana? Quali sono i suoi principali obiettivi?
Il termine rigenerazione urbana è entrato nelle cronache dell’attualità da circa 15 anni. Prima si parlava più spesso di riqualificazione urbana, con un forte accento sulla cosiddetta “città di pietra” vs “città di carne”, come dice Ilda Curti, cioè sugli edifici e sulle strade con un taglio primariamente urbanistico-architettonico e ammiccante verso il tema del decoro. Riqualificazione urbana significava prendere un’area, anche degradata, sia nei suoi aspetti socio-economici sia dal punto di vista estetico, e rimetterla a posto tramite interventi sui marciapiedi, sulle aiuole, sulla piazza, per renderla più piacevole all’occhio e all’uso.
La rigenerazione urbana, invece, ha portato l’attenzione su un altro livello. Negli ultimi quindici anni si è iniziato a riflettere su come le persone vivono gli spazi e su quanto questi spazi favoriscano – o ostacolino – la vitalità della vita urbana.
Il termine stesso, “ri-generare”, indica non solo il miglioramento di un luogo, ma anche piantare qualche seme che a sua volta crei altro. La rigenerazione, quindi, riguarda sia gli spazi fisici, sia le funzioni che essi ospitano che la partecipazione delle comunità.
L’obiettivo di una rigenerazione urbana è dare una nuova spinta, un nuovo giro all’attivazione delle comunità nei luoghi dove queste stesse vivono, attraverso la riqualificazione degli spazi. Quindi, in termini generali la riqualificazione diventa uno strumento e l’obiettivo, è generare relazioni, funzioni e attivismo.
Va poi fatta una distinzione importante – su cui torneremo più avanti – tra due approcci alla rigenerazione urbana. Da un lato c’è il modello bottom up, qui è la comunità ad attivarsi e a riappropriarsi degli spazi urbani prima non accessibili. In questo processo, progetta, autogoverna, propone iniziative che sono di puro interesse della stessa comunità dal basso che sta riqualificando quel luogo.
Dall’altro lato, c’è la rigenerazione top down, quella promossa dagli sviluppatori immobiliari, che negli ultimi 15 anni hanno assunto un ruolo sempre più rilevante nella rigenerazione urbana.
Se inizialmente questo fenomeno era prevalentemente civic-driven (guidato dalla cittadinanza), oggi è molto più real estate-driven (guidato dal mercato immobiliare).
In particolare, quando si parla di grandi aree, gli sviluppatori non si limitano a costruire abitazioni ma immaginano interi contesti abitativi. Questo perché c’è stato anche un cambiamento della domanda del mercato immobiliare. Non si cerca più solo una casa ben fatta, con infissi di qualità e spazi ben distribuiti. Sempre di più in questi 15 anni, si cercano e comprano contesti di vita.
Spesso faccio l’esempio di una casa rivestita di marmi e oro, posta in un quartiere non riqualificato che non si vede bene. Risulta meno desiderabile di un appartamento più modesto, ma essendo situato in una zona in fermento, che sta subendo una riattivazione, acquista più valore.
Gli sviluppatori immobiliari, consapevoli di questa dinamica, hanno iniziato a immaginare interventi più ampi – spesso su superfici di almeno 50.000 metri quadri, a volte anche oltre i 100.000. Si tratta di operazioni che sono parzialmente top down (quasi sempre contengono almeno una quota di coprogettazione) però sono mossi da un interesse sostanzialmente industriale, se vogliamo anche speculativo rispetto alla trasformazione dell’area. L’esito finale sarà la vendita. E quindi, chi investe nella rigenerazione ha lo scopo di guadagnare più di quanto ha speso per “rimettere a posto” l’area, vendendo tutti gli appartamenti.
In questa logica, l’attivazione delle comunità e la rigenerazione in senso più ampio diventano strumenti funzionali alla vendita: tappe intermedie per valorizzare l’intervento e massimizzare il ritorno economico
Tra questi due poli – quello della comunità e quello degli sviluppatori – come sempre c’è il settore pubblico. A volte il suo ruolo è quello di regolamentare l’attività degli sviluppatori immobiliari, altre volte ha il ruolo di favorire l’attivazione dal basso.
Le imprese hanno allargato i confini delle città: oggi, in che modo questo influisce sulla loro struttura e vivibilità?
Ci sono stati due processi principali, e personalmente, sto anche un po’ cambiando idea. Il primo è l’espulsione della manifattura dalle aree urbane, che ha determinato l’espansione della città a inglobare queste zone ex industriali. Prendiamo ad esempio il quartiere Novoli a Firenze: in passato era sede industriale della Fiat, si trovava ai margini dell’area abitativa della città ed era quindi un comparto separato.
Poi la città si allarga, la ingloba e la espelle. Non è più congeniale per l’industria manifatturiera pesante mantenere gli stabilimenti produttivi all’interno della città (come nel caso di Novoli, ex Galileo e altri). Le ragioni sono molte: problematiche logistiche, impatti ambientali, rumori, inquinamento e la difficoltà di integrarsi con il tessuto urbano circostante.
Un altro fattore rilevante è il valore immobiliare di queste aree. Finché un capannone industriale è in uso, ha un certo valore che l’impresa considera negli ammortamenti come un input di produzione. Ma quando il valore di mercato di queste aree cresce a tal punto che possono essere riconvertite in appartamenti, negozi o altre strutture, diventa più conveniente vendere e spostare l’attività in una zona periferica.
Il guadagno ottenuto dalla vendita dello stabilimento industriale dentro una città – che può diventare appunto appartamenti, retail, locali commerciali – permette all’impresa di acquistare un capannone più grande in una zona periferica a costi inferiori.
Si tratta, quindi, di un processo endogeno nello sviluppo delle città e del mercato. Quando il valore del terreno aumenta, gli incentivi per la città e per l’impresa spingono verso la delocalizzazione, con l’obiettivo di rendere queste aree disponibili per altri usi.
A quel punto, in una città ritroviamo inizialmente questi “vuoti urbani”, che possono seguire due strade: o vengono immediatamente riconvertiti in nuove funzioni (facilmente diventano appartamenti o altro sul mercato che si vende bene), oppure rimangono vuoti magari per decenni.
Quindi, in che modo questo influisce sulla struttura di vivibilità della città? Per lungo tempo – oggi siamo in una fase più avanzata, quindi anche la mia idea sta cambiando – avevamo davanti dei grandi contenitori vuoti che lasciavano dei buchi nel tessuto della città. Un esempio è l’ex Galileo a Firenze, una ex zona meccanotessile che ancora oggi rappresenta un vuoto tra i quartieri di Statuto e Rifredi.
Situazioni simili si trovano in molte città italiane: il quartiere San Lorenzo a Roma, un altro quartiere di questa natura è Bicocca e l’ex Macello a Milano e le Officine Grandi Riparazioni a Torino. Tutte realtà con questa dinamica: abbandonate, rimaste vuote per tanto tempo, portando spesso degrado, criminalità e più in generale una cesura nel tessuto urbano.
Poi, a un certo punto, arrivano le attivazioni. A volte è un’impresa o uno sviluppatore immobiliare a prendere in mano la situazione. Altre volte – con meno frequenza – si tratta di iniziative dal basso, che però richiedono ingenti risorse. Per quanto riguarda, invece, un intervento pubblico di rigenerazione, avviene raramente.
Riguardo al mio cambiamento di opinione, credo che alla fine anche i percorsi di rigenerazione, specialmente se RealEstate-driven, altro non hanno fatto che accompagnare il naturale sviluppo delle città per come si erano sviluppate fino a quel momento.
Se la città è orientata verso il turismo, anche le rigenerazioni tendono ad allinearsi a questo trend, pur con l’intento di riattivare l’area. Ma la vera mancanza degli ultimi anni è la progettazione di un’economia urbana integrata, che colleghi non solo i contesti abitativi, ma anche i contesti lavorativi. Parlo di co-working, incubatori di imprese e una manifattura più leggera.
Quasi tutte le rigenerazioni urbane degli ultimi anni, per quanto riguarda le grandi aree (e non singoli edifici come nel caso di una cascina riattivata dalla comunità), hanno seguito un modello che punta principalmente a creare appartamenti. Intendo aree dove ci sono decine o centinaia di migliaia di metri quadri, numerosi edifici, tutte queste hanno seguito la linea della creazione di appartamenti e al limite coinvolgono alcune funzioni caratteristiche che tipicamente possono essere l’università o la parte ospedaliera. A Firenze, l’Università Polimoda è stata collocata nella Manifattura Tabacchi; a Milano, l’Università IED nell’ex Macello. Dopo l’Expo 2015, l’ex area Expo è diventata un polo dedicato alle tecnologie sanitarie e al genoma umano.
In Italia non ci sono casi particolarmente significativi di riqualificazioni che abbiano puntato sulla reindustrializzazione, ripeto, un tipo di industrializzazione attualizzata al tempo presente, quindi con più servizi e meno manifattura pesante. A Firenze, per esempio, le riqualificazioni non hanno fatto altro che accentuare il trend già in atto.
In questa città, manca ancora un polo che non sia legato all’economia turistica. Una riflessione recente con alcuni colleghi ha riguardato la possibilità di ripensare diversamente l’area dell’Osmannoro senza necessariamente trasformarla in un’ennesima zona residenziale per la classe media, con case, spazi verdi e locali alla moda. Questo non può essere l’unico modello che guida il processo di rigenerazione.
La “lotta all’overtourism” al momento vede l’attenzione delle varie amministrazioni concentrarsi sugli strumenti normativi (si può/non si può). Invece, la vera domanda da porsi è come bilanciare un’economia puramente turistica con economie di altra natura, tra cui quella industriale qualificata. Questo è il vero tema che manca ancora nel dibattito sulla rigenerazione urbana.