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Vuoti Urbani, progettualità per ricucire i tessuti. Intervista a Marco Tognetti (seconda parte)

Marco Tognetti è docente presso ISIA Firenze di Economia al triennio e di Design Management e Marketing al biennio. I suoi studi provengono dall’economia dello sviluppo e la sua attività lavorativa spazia dall’ambito del design dei servizi alla progettazione urbana. Gli abbiamo posto qualche domanda in merito alla rigenerazione urbana legata a Firenze, alla presenza di industrie nel territorio in un’ottica di inserimento nella comunità ed altri temi ad essa collegati.

Prendiamo ad esempio Calenzano, un centro della produzione industriale fiorentina. Se si interrompessero alcune attività industriali in questa zona, si creerebbero dei vuoti urbani proprio al confine della città. In quale modo pensa che si potrebbe far rivivere questa area, portando la comunità a riscoprirla e riabitarla?

Nel caso specifico, ormai da almeno 15 anni il processo di rigenerazione è pienamente attivo e se ne parla. L’area metropolitana fiorentina è praticamente inutile chiuderla nel confine del municipio di Firenze. Siamo noi cittadine e cittadini a ridisegnarla costantemente – boundary judgments – noi la ridisegniamo con la nostra vita: chi vive a Calenzano ma lavora a Firenze, chi accompagna i bambini a scuola in zone diverse, chi usa i mezzi pubblici, chi gestisce i rifiuti.

Le nostre vite disegnano un’area che non coincide più con il solo comune e che si estende su una scala più ampia, come quella dell’intera area metropolitana, con una particolare attenzione al Mugello, dato che in mezzo ci sono montagne e colline. Se andiamo verso la Piana, si potrebbe arrivare tranquillamente a Pistoia, comprendendo sia Prato che Pistoia stessa.

Anche nei comuni vicini, come Calenzano, Campi Bisenzio o Scandicci – quindi nei comuni strettamente limitrofi – ci sono altre opportunità interessanti, come per esempio la Campolmi.

Esiste poi un fenomeno importante da considerare: l’espulsione della residenza, non solo della manifattura, poiché è più conveniente acquistare case fuori città. La gestione del tema abitativo a Firenze, sia studentesco che delle famiglie, è disastrosa se pensata all’interno del centro della città.

Questa dinamica è alimentata dalla numerosa presenza di turisti che non diminuiranno. Pensando ad un modo per attutire questo flusso, per esempio con la tassa di soggiorno, i turisti continueranno a venire in massa e saranno sempre milioni, mentre i residenti rimangono centinaia di migliaia. È impossibile “difendersi” in questo modo.

In un’area più ampia, invece, la situazione cambia. Numericamente, ci avviciniamo al milione di persone, diventando una forza di comunità più grande. Tecnicamente, abbiamo più territorio su cui fare progettazione.

Ecco perché sarebbe importante pensare alla progettazione urbana a livello metropolitano, farla guardando agli ex contenitori industriali, non solo nell’ottica del fare nuove abitazioni, ma secondo me anche come luoghi per creare nuovi insediamenti industriali. Proporre riqualificazioni che vadano in questa direzione sarebbe, a mio avviso, fondamentale.

Quale ruolo potrebbe avere la rigenerazione urbana nella Firenze del futuro? Si possono anche aprire più binari, quello che realisticamente o in maniera pessimistica potrebbe succedere o quello che potrebbe essere una svolta, appunto un modo diverso di ragionare la città.

Secondo me servirebbe un piano, chiamiamolo a due velocità o con due binari relativamente paralleli: uno focalizzato sulle grandi aree e l’altro sulle attivazioni a livello locale, più micro.

Da un lato, c’è la riprogettazione delle grandi aree che richiede soldi e investimenti perché le sue dinamiche sono complesse e lunghe. Anche per la stessa Manifattura Tabacchi, iniziata nel 2017, non si possono riqualificare 100.000 metri quadrati di superficie senza avere una visione a lungo termine o un orizzonte di almeno dieci anni. Questi sono i tempi delle grandi aree e servirebbe una visione il cui obiettivo della Firenze del futuro, a mio parere, deve essere quello di ribilanciare gli equilibri fra turismo e altri settori produttivi.

Per raggiungere questo equilibrio, per ribilanciarlo, dobbiamo creare occasioni che permettano alle persone, come economisti e designer, di trovare un motivo per restare a lavorare a Firenze o per venire appositamente a lavorare, altrimenti la città rischia di diventare una meta di affitti temporanei, dove si resta per poco tempo prima di trasferirsi altrove. Ed è esattamente il processo in corso.

Quindi, da una parte, gli interventi dovrebbero, a mio parere, andare in quella direzione. Dall’altra, però, non assegnerei ai grandi interventi l’unica responsabilità di attivare le comunità locali. Il tessuto urbano ha bisogno di interventi più mirati, simili a quelli dell’agopuntura: un lume qui, un lume là. Qui entra in gioco il ruolo del pubblico: bisogna dare la possibilità ad una realtà territoriale di gestire uno spazio per 10, 20, 30 anni come attivatore micro, questo è estremamente prezioso perché il tessuto non si strappi, non si sfilacci.

Da una parte dovremmo tenere insieme il tessuto riempiendolo di tanti piccoli punti attivati dal basso; dall’altra la progettazione delle grandi aree ha bisogno, secondo me, di un pensiero che guardi alla città metropolitana e che abbia come obiettivo quello di ribilanciare gli equilibri economici rispetto al turismo.

La rigenerazione urbana è sempre più un argomento di discussione, approcci bottom up e top down. Crede che i criteri stabiliti dalle amministrazioni per riattivare le ex aree industriali siano realmente efficaci nel bilanciare gli interessi delle istituzioni e quelli della cittadinanza? O, piuttosto, rappresentano un ostacolo alla partecipazione dal basso?

Al momento non c’è una strategia organica, intesa come visione politica esplicita, quindi dichiarata. Non ci sono né gli strumenti normativi che la possano mettere a terra, né l’attivazione di realtà civiche strutturate che possano operare in modo efficace. Questi i tre elementi imprescindibili: una visione politica dichiarata (perché si può anche avere una visione, ma finché non viene dichiarata, di fatto non esiste); le norme adeguate; la coprogettazione delle realtà civiche. Finché non ci sono questi tre elementi tutto ciò che accade resta un evento nel senso etimologico del termine, ovvero qualcosa di contingente e isolato.

L’esempio del Lumen è significativo: è stato possibile grazie ad una serie di circostanze particolari che attualmente non sono situazioni replicabili. Non esiste una visione che faciliti e chiarisca il processo, che permetta a chiunque voglia strutturarsi come realtà, di sapere a chi rivolgersi per i bandi, quale ufficio fornisce i documenti e come funzionano le procedure.

Nel caso del Lumen, l’incrocio di tutte queste variabili da chi è stato agevolato? Chi ha dato la spinta maggiore?

La spinta, nel caso di Lumen, è stata una spinta dal basso, portata avanti da persone come Antonio Bagni e altre che si sono dedicate con determinazione a risolvere ogni singolo ostacolo. Ovviamente, c’è stato un dialogo con l’amministrazione, ma si è trattato di un dialogo che è stato in gran parte una reazione allo stimolo arrivato dal basso. E che quindi ogni volta ha reagito.

Tutto questo è un processo molto farraginoso e lento, in cui si commettono facilmente errori e, soprattutto, non replicabile.  Quindi, da un lato è positivo che sia accaduto, ma dall’altro è negativo perché non ha segnato una nuova strada. O meglio, l’ha mostrata, ma non è nuovamente perseguibile da nessuno in quello stesso modo, perché è troppo legata a come Antonio è riuscito a dialogare con gli uffici. Ovviamente lascia un esempio concreto sul campo, quindi si potrebbe ritrovare, anche se non è diventata una politica organica.

Finché non è una scelta organica, che unisca visione, norme e attivazione, questi rimarranno eventi occasionali, legati a contingenze specifiche. Oggi, dunque, è un percorso a ostacoli.  Per rispondere direttamente alla domanda: oggi ci sono più ostacoli che opportunità.

Le amministrazioni pubbliche spesso concedono l’uso temporaneo di edifici dismessi per un periodo limitato (come fosse un test) valutando se la rigenerazione dello spazio funzioni prima di renderla definitiva o interrompere il progetto (come nel caso della Caserma Pepe a Venezia). Come percepisce il riuso temporaneo di un edificio?

Sono molto affezionato alla progettazione temporanea perché la ritengo un tipo di progettazione che avviene in un contesto più semplice, che è sempre una buona idea, perché riduce i costi e permette di raccogliere feedback sui risultati di ciò che fai. Però “temporaneo” vuol dire proprio “temporaneo”: un triennio è il massimo che si riesce a gestire. Perché come nel caso di Lumen, ma anche della Manifattura Tabacchi, dopo un po’, è necessario avere la possibilità di scalare la dimensione dell’investimento fatto, sempre rimanendo in ambito no profit.

Alcune dimensioni di investimento hanno bisogno di tempo per essere ammortizzate, cioè per rientrare. E non solo: anche da un punto di vista normativo, alcune integrazioni come l’aggiunta di attività che generano reddito gestite solamente nella temporaneità, non permettono di mandare in scala.

Quindi, benissimo la sperimentazione temporanea per prototipare, ma se non si è strutturato il secondo passo, spesso il progetto finisce lì perché non c’è una pianificazione che preveda il succedersi di una nuova fase. Se non si ha la filiera – cosa riscontrabile anche dai colleghi di Nana Bianca che possono descrivere ampiamente il problema – è come piantare un seme e poi non avere concime, acqua e sole che gli permettano di germogliare e dare frutti.

Una volta che il temporaneo termina, come si fa a progettare in modo definitivo? Il problema è la filiera amministrativa. Il cosa lo decide chi sta sperimentando, mentre il come è regolato dal pubblico. Quindi il problema è che chi sperimenta fa quello che vuole, ma una volta che ci si convince che la cosa che si sta sperimentando è buona e ci si vuole impegnare per trent’anni a prendere uno spazio (con la responsabilità delle spese straordinarie e ordinarie per un tempo prolungato), si deve avere lo strumento per poterlo fare, perché in questo tempo si hanno oneri – che sono rimettere a posto e gestire in modo straordinario e ordinario ecc – ma si deve avere anche gli onori, quindi la possibilità di investire in una cucina industriale perché si fa ristorazione, o in spazi insonorizzati perchè si fa musica e così via.

La deindustrializzazione ha lasciato in eredità molte aree dismesse, spesso legate al settore della difesa o dei trasporti. L’urbanistica tattica, con il suo approccio all’uso temporaneo degli spazi, offre un’opportunità per sperimentare nuovi modelli di convivenza e collaborazione. Come possiamo applicare questo metodo alla gestione delle grandi aree dismesse e al loro reinserimento nella vita urbana?

L’urbanistica tattica la vedo molto efficace proprio per le scelte urbanistiche dell’amministrazione, perché si presta bene a sperimentare che cosa vuol dire, per un periodo di tempo definito chiudere una piazza o allargare il marciapiede, oppure creare piste ciclabili o invertire sensi di marcia.

L’urbanistica tattica come strumento per prototipare delle scelte urbanistiche, secondo me è interessante, è una modalità più viva che non pianifica l’assessore all’urbanistica o la giunta. Spesso si agisce in ambito urbano solo in conseguenza di lamentele: se tutti insieme si lamentano che in un incrocio ci sono molti incidenti, a un certo punto si decide di metterci un semaforo. Mentre l’urbanistica tattica permette di fare sperimentazioni interessanti, soprattutto affiancata all’attività formale delle scienze urbanistiche.

Non lo avvicinerei al tema dell’uso temporaneo degli spazi pubblici per fare attivazione e rigenerazione, ma lo considererei più come strumento dell’amministrazione pubblica per prototipare in ambito di urbanistica.

Le amministrazioni di Firenze vedono di buon occhio la pratica dell’urbanistica tattica?

A Firenze non è vista di buon occhio. Ci sono stati alcuni casi recentemente, con la vecchia giunta, per cui Piazza Valdelsa è stata rifatta seguendo alcuni principi dell’urbanistica tattica. A parte pochi casi come questo la pratica si è rinabissata e non è entrata come prassi di nessuna giunta.

È una pratica adottata maggiormente dalle classiche grandi città europee: Parigi, Barcellona, Copenhagen… dove tutti hanno grande esperienza su questi temi. Oppure, città più piccole come Siviglia, Granada, Bruges, Gent.

Sono tutte città che hanno vissuto tanta sperimentazione perché c’è un tessuto del terzo settore, o comunque di attivismo sul tema, vivace e partecipato, con un’amministrazione che sa cogliere le occasioni. Nel senso che, rilevando questo attivismo, non lo ostacolano come avviene qua in Italia, ma anche opportunisticamente lo cavalcano, è qualcosa che dà anche merito a chi lo testa. Ed è questo che mi fa arrabbiare: queste sperimentazioni sono un qualcosa che porta valore, anche politico, a chi lo abbraccia, ma purtroppo in Italia da parte della politica non c’è neanche il riconoscimento di questa opportunità.

Un’eccezione può essere Milano che, essendo la città italiana metropolitana più grande e più europea di tutte, è la città che più ha testato queste metodologie, fino a fare diventare politica organica col progetto “Piazze aperte” che è stato un progetto proprio basato sull’attivazione civica e l’urbanismo tattico per prototipare la riqualificazione delle piazze. Anche Bologna ultimamente è particolarmente vivace e sembra essere la prossima candidata a regalarci casi interessanti a cui ispirarsi.

Quale potrebbe essere un libro utile per approcciare l’argomento della rigenerazione urbana?

Penso sia interessante il libro di Carlo Ratti del 2017 che si chiama “La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”, che porta una focalizzazione sull’aspetto delle reti e sul filone dell’economia della conoscenza (principio di relativeness) e di come alcuni tipi di competenza, per relativa similarità, possono abilitare l’esistenza di settori non strettamente coincidenti. Quindi, questa riflessione su come ripensare i piani strategici delle città, a partire dall’economia della conoscenza, la trovo particolarmente ricca e vivace. È un libro del 2017, quindi è un po’ datato, però proprio perché è legato a un momento in cui si riusciva a parlare di reti non solo legate ai dati, ma anche in maniera più concettuale, continua a essere un libro interessante. Un’altra lettura potrebbe essere “Collective Learning for Transformational Change: A Guide to Collaborative Action”, che tratta la possibilità di apprendere in modo collettivo.

Ci sono delle rubriche, dei giornalisti, delle realtà social che trattano il tema della rigenerazione urbana di cui valuta l’operato e il lavoro di informazione/divulgazione?

Merita di essere nominato “innovazione 2020” di Saverio Cuoghi che ha fatto una bella raccolta di materiali sui temi.

In una parola sola, cosa vorrebbe vedere nella Firenze del futuro?

Progetto. Un progetto che si può criticare, si può essere a favore o si può essere contro, ma un progetto che non sia solo reazione agli eventi, perché così facendo non si creano alternative valide. L’esempio di Airbnb dimostra che la mancanza di un progetto che prevede un’alternativa a questo servizio, non crea alternativa ma rimane soltanto una reazione fine a se stessa.

Lo scorso giugno ho fatto un’analisi dei redditi dei cittadini fiorentini da cui è emerso che quasi la metà del reddito complessivo del PIL pro capite cittadino era determinato dalla rendita degli affitti. Questo significa che, a fianco alle grandi società con un sacco di appartamenti che lucrano, ci sono anche tanti redditi familiari che sono co-mantenuti dalla rendita. Quindi, andare a toccare questo fenomeno in assenza di altro che generi reddito, vuol dire andare a toccare come oggi le persone vivono. Fuori dalla morale politica e dai posizionamenti ideologici, è necessario progettare e costruire una città diversa.

 

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