Il figlio del vento

Massimo Granchi

07/05/2020

I primi mesi dopo la nascita, sua madre non lo lasciava volentieri nella culla. Era inutile il suggerimento dei parenti più anziani che sarebbe stato meglio farlo piangere per fortificarne il carattere. Quante chiacchiere si sprecavano intorno a suo figlio! A lei non interessava che fosse forte, ma felice. Le bastava contemplarlo per raggiungere un’intesa. Era consapevole della ricchezza esclusiva che quella maternità rappresentava e l’avrebbe vissuta a suo modo, fino in fondo. Nonostante la diagnosi. Perciò lo teneva tra le braccia o vicino a sé, per osservarlo e sfamarlo. Il bambino lo capiva bene e ogni volta che la donna lo allontanava, lui aveva imparato a reclamare la sua presenza. A volte capitava che fosse stanca davvero e per riuscire a dormire era costretta, suo malgrado, ad adagiarlo nel lettino. Claudio piangeva molto, insistentemente, e non c’era alcuna possibilità di riconquistare la sua fiducia. Tranne quando qualcuno si dimenticava la finestra aperta e la brezza entrava per invadere la stanza. In quei momenti, il bambino si calmava, tendeva le braccia paffute verso l’alto, le dita aperte con i palmi rivolti al soffitto e rimaneva immobile, a bocca spalancata, come in ascolto. Fu così che la madre imparò ad assecondare i suoi ritmi e le sue passioni, anche durante gli anni che arrivarono dopo.
 
Claudio vive in una città di mare. La sua casa con giardino è a pochi passi da una spiaggia bianca, lunga diversi chilometri. Ora che ha dieci anni, gli piace rimanere qualche minuto ogni giorno sul bagnasciuga, fermo sulle gambe sottili, teso con le narici divaricate, i pugni stretti e le orecchie tese. I piedi immersi nell’acqua. Sembra un fenicottero rosa contro la luce del giorno. È cieco dalla nascita e gli piace annusare gli odori portati dal vento. Oltre il confine dell’orizzonte precluso alla vista, dove il suo olfatto non può arrivare, giunge con il pensiero. Si sforza di amplificare ciò che sente attraverso la pelle e, nel buio perenne degli occhi, ha imparato a tracciare itinerari fantastici dai molti colori che non ha bisogno di chiamare per nome. Li percorre ormai con sicurezza. Sono le uniche strade che conosce.
«Claudio!» La mattina sua madre lo chiama a fare colazione e lui è pronto; è svegliato dal profumo di caffè, dai rimestii in cucina, dal suo cane Levante che gli siede accanto e gli lecca la mano. Sono sensazioni familiari.
 
La scuola è finita. L’estate è giunta da poco, demolendo i contorni di un inverno mite, ma lui lo ha avvertito sulla pelle molto prima di chiunque altro: prima dei cambiamenti della natura, prima delle temperature che maturano i frutti. Per sua fortuna, aprendo la porta sul giardino, solo pochi metri lo separano dalla libertà. Claudio ha gambe veloci, si muove come lo Scirocco che gli porta racconti invisibili e lui li rappresenta con l’immaginazione. Preferisce leggerli nella mente. Questo gli piace anche più delle storie che decodifica con i polpastrelli o che sente recitare da suo padre la sera, prima di addormentarsi. È grazie al vento se il ragazzo ha imparato che i cespugli di mirto, le imbarcazioni che sente cozzare contro la banchina o le reti dei pescatori che macerano sotto il sole, non possono essere lontani da dove vive.
 
La brezza soffia ogni giorno ed è una conferma che lui esiste. Cosa farebbe senza? L’ha conosciuta alla nascita e ha capito, suo malgrado, che avrebbe dovuto interrogarla spesso. Quando invece il Maestrale comincia a respirare, dura tre giorni, sibila contro le persiane e si insinua sotto la porta, batte contro i muri scrostati dalla salsedine e smuove gli alberi fino a piegarli. Li lascia lì, in quella posizione, come sospesi tra cielo e terra. Glielo hanno raccontato e lui ci ha riso mentre ci girava intorno per esserne certo, nella pineta accanto alle saline. Una volta è stato in barca, stretto, stretto a suo padre. Ha provato a superare la percezione del limite.
«Andiamo più lontano che si può! Più forte!», ha esortato festoso e l’uomo lo ha accontentato. Ha volato sulle onde, ha imparato che il mare è infinito e quando è mosso ha un altro odore. Adesso lo riconosce subito, anche a distanza di centinaia di metri; come quando passeggia in città, al fianco di sua madre e di Levante. Ha imparato a distinguere i mutamenti che preludono la tempesta e sente in quale momento la macchia mediterranea che circonda il quartiere è in fiamme, con il naso e la pelle che avvampano. In quel caso, un po’ si dispera per la vita che si esaurisce, un po’ è eccitato dalle essenze selvatiche liberate dalla combustione.
 
Corre più veloce che può solo sulla sabbia dove si sente al sicuro, lungo le vie della sua mente. Fa a gara con Levante che lo tallona e abbaia per guidarlo. Valuta la lontananza dagli oggetti con la variazione dei toni e dei volumi del suono. Si trova al centro di un quadrante perfetto dove a nord, lungo la strada asfaltata, sibilano e sfrecciano le auto, la gente cammina o fa attività sportiva, i bicchieri e i piatti rumoreggiano nei chioschi affollati. A est, ci sono le imbarcazioni ormeggiate al porticciolo e i cespugli di pungitopo. A ovest, si stendono chilometri di rena brillante - questo lo ha saputo, incredulo, da sua madre. Non comprende del tutto il concetto di brillantezza per questo ne ha timore, ma un po’ lo intuisce attraverso le palpebre. A sud, c’è tanto, tanto mare che lo contiene e lo protegge. È tutto il suo mondo. La battigia è la pista preferita da cui decolla a braccia larghe, ricettori della vita che lo circonda come fossero radar, fin da quando era nella culla. Quando è stanco, si ferma, ascolta il cuore impazzito, immagazzina le percezioni dell’epidermide che diventano esperienza vissuta. Le ore dei pasti sono sature di fritture, essenza di limone e ricci di mare spolpati con il coltello sotto il sole. Claudio sa che deve rientrare anche se non avrebbe bisogno di mangiare.
 
Prima di rincasare si ferma sulla riva, proteso verso l’infinito. Prende ancora qualche minuto per superare quel confine invisibile che ha superato in barca con suo padre; lo abbraccia, lo affascina e, nonostante tutto, lo rende saldo. Non ne è ancora cosciente perché è rapito nell’istante senza tempo della sua infanzia, ma si prepara a sfide ben più impegnative che diventeranno avventure; a dieci anni, il suo olfatto non può ancora condurlo oltre, ma le vivrà, in qualche modo, senza paura, quando sarà un adulto figlio del vento. Per ora è solo un bambino. «Claudio!» sua madre lo chiama ed è già ora di rincasare.
 
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it "Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"
 
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