Pandemia e democrazia

Simone De Santi

11/05/2020

In questi giorni, in realtà divenuti presto un paio di mesi, di vita quasi sospesa o comunque messa in pausa, chiamata ormai da tutti quarantena, mi sono aggirato in maniera confusa, quasi da sonnambulo, tra le letture di Vittorini, Tondelli, Sciascia, Pasolini, passando per Hugo Pratt e cadendo, come spesso mi accade, negli abissi di Pessoa. La televisione quasi sempre spenta per non accrescere il senso di ansia e l’ipocondria, oppure quando accesa sintonizzata su ogni genere di cartone divorato dalle mie due figlie. Non ho trovato un filo conduttore o una riflessione particolare, fino a quando, grazie ad un amico, mi sono imbattuto nell’intervista al filosofo Giorgio Agaben, amico di Elsa Morante, Italo Calvino, Pierpaolo Pasolini per il quale interpreterà nel 1964 l’apostolo Filippo nel film “Il vangelo secondo Matteo”.  Agaben tratta spesso temi di filosofia politica e biopolitica con particolare attenzione alle nozioni di stato di emergenza, esilio e autorità. Sono attratto dagli irregolari e dal pensiero non lineare, anche qui, come sempre, in ordine sparso, da Rino Gaetano e Marco Pannella, passando per Giuliano Ferrara e Don Baget Bozo, ed è forse per questo che mi sono interrogato sulle parole del filosofo, la cui intervista è facilmente rintracciabile, e che invito a leggere, anche per capire se le riflessioni che in me ha suscitato, siano solo frutto di una clausura, oppure se ci sia il barlume, peraltro raro, di qualcosa di sensato.

Agaben, al netto delle disquisizioni se questo lockdown sia stato o meno giustificato o giustificabile, alla domanda: ”Stiamo vivendo, con questa reclusione forzata, un nuovo totalitarismo?” risponde che “da più parti si va ora formulando l’ipotesi che in realtà noi stiamo vivendo la fine di un mondo, quello delle democrazie borghesi, fondate sui diritti, i parlamenti e la divisione dei poteri, che sta cedendo il posto a un nuovo dispotismo, che, quanto alla pervasività dei controlli e alla cessazione di ogni attività politica, sarà peggiore dei totalitarismi che abbiamo conosciuto finora”. La risposta, che lui evidentemente a suo modo argomenta, pone in noi la domanda se, questo enorme sconvolgimento, abbia cambiato così tanto davvero le nostre vite da mettere in discussione ciò che fino a ieri davamo per scontato, in maniera sbagliata a parere mio, ovvero la libertà.

Tralasciando (e non mi interessano, ne saprei, vorrei, argomentare) la fondatezza scientifica o la validità giuridica che ci ha imposto di rimanere in casa, la domanda, se questo evento abbia o meno accelerato o reso più visibile un movimento, uno slittamento storico, che indebolisce il sentire democratico è ben posta. Le file al supermercato per gli alimenti, il non poter uscire di casa, lo spirito di delazione di centinaia di cretini che sul web si sono divertiti a sputtanare il vicino di casa. Le grida dalle finestre rivolte anche a quelle mamme con figli con particolari disabilità che non riuscivano a tenerli chiusi in casa h24, l’elicottero che rincorre dal cielo il runner, la conta dei morti ogni sera alle 18.00, le bare portate via con i camion militari, il ricorso continuo alle parole Guerra e Battaglia, le bandiere sui balconi, i canti stonati dalle finestre, i carabinieri che interrompono una messa, ma anche gli straordinari atti di solidarietà e generosità di centinaia di medici, infermieri, forze dell’ordine, commessi dei supermercati, volontari di ogni ordine e grado ed infine, anche nella così detta fase due, la “possibilità di andare a trovare solo gli affetti stabili” che nella goffa intenzione di chi lo ha scritto, vuol dire “ragazzi, non facciamo cazzate e non esageriamo”, ma che una volta che lo metti in un provvedimento fa scivolare lo stato laico in stato etico, tutto questo e molto altro,  sono senza dubbio elementi del più grande esperimento sociale mai messo in piedi.

Se a ciò, come dovuto, aggiungiamo il distanziamento sociale e la lontananza dai nostri affetti, quello che abbiamo vissuto e in parte viviamo, è stato qualcosa di molto simile ad una detenzione di massa, mai verificatasi nella storia dell’umanità, e neppure lontanamente concepibile, anche per chi ha letto Orwell, fino ad ieri. Ciò di per sé, tuttavia non giustifica e non spiega se sia possibile o meno un ritorno a forme di organizzazione sociale lontana dalla democrazie. Certo, non è qui, non è ancora, la contrapposizione tra l’unione europea della Patrie come fu, con la Roma fascista, la Berlino Nazista, la Madrid Franchista e la Lisbona di Salzar alla patria europea dei Salvemini, degli Sturzo dei Thomas Mann, parafrasando Marco Pannella in un discorso del 1 maggio 2013, recentemente ripubblicato dal Foglio nell’anniversario di quello che sarebbe stato il 90° compleanno del leader radicale.
 
Eppure mi tornano in mente le lezioni di storia del professor Paul Corner, che credo oggi sia decano dell’università degli studi di Siena, sulla concatenazione tra riforma agraria e rivoluzione industriale. I paesi che non ebbero la rivoluzione agraria antecedente alla rivoluzione industriale, e quindi tutti ad esclusione dell’Inghilterra e con l’eccezione degli Stati Uniti, allora un mondo lontano quasi come oggi, non sprigionarono risorse economiche per “finanziare dal basso” la rivoluzione industriale ed essa avvenne a tappe forzate, indotta dallo stato, con evidenti tensioni sociali, che, assieme a quella che George L. Mosse definisce La nazionalizzazione delle masse, ovvero l’ingresso nella vita politica di coloro che non erano solo facenti parte delle élite, provoca una risposta autoritaria. Ecco che le varie forme di autoritarismo, fino ad arrivare ai totalitarismi tedesco e russo, si affermano in buona parte dell’occidente. Queste forme di governo hanno in qualche forma consentito il compimento della rivoluzione industriale, tenendo a “freno” quelle masse che volevano entrare in politica con il loro carico di rivendicazioni sociali, dapprima legate prevalentemente al mondo del lavoro, e poi, dopo la rivoluzione di ottobre, totalizzanti.

Con la fine della seconda guerra mondiale ed un mondo da ricostruire si affermano le “democrazie borghesi” per tornare alla definizione di Agaben. Il modello democratico è stato il più straordinario strumento attraverso il quale l’organizzazione economico sociale, che nel novecento si sarebbe definita capitalismo, si è affermata. Ovvero, la forma democratica della gestione del consenso e del contenimento del dissenso è stata la più idonea alla crescita dell’economia moderna e delle varie organizzazioni industriali che si sono succedute, ed ha ottenuto una vittoria così schiacciante sull’altro tipo di organizzazione sociale, quella, definiamola grossolanamente, comunista, da far parlare di “Fine della Storia” a Fukuyama.

Ritornando quindi alla risposta di Agaben, la domanda che potremmo, sempre se ne abbiamo la voglia e la forza, porci, è forse un’altra. La democrazia, con i suoi riti, i suoi tempi lunghi, le sue incertezze, la naturale mediazione e fatica che comporta, è oggi compatibile o meno con il modello economico e finanziario con cui necessariamente deve fare i conti? La rivoluzione tecnologica, che in un certo senso è quasi sarcofaga nei confronti di ciò che viene definita globalizzazione, comporta per forza un modello organizzativo diverso delle forme di partecipazione, di creazione di consenso e di controllo, sociale ed economico. L’accesso diretto all’informazione priva di canali istituzionali, con tutti i loro limiti (almeno sapevi a chi dare le colpe), comporta una possibilità fatta da algoritmi e big data, di conoscere, indirizzare, promuovere, idee, consumi, giudizi e pregiudizi. La possibilità di agire con un click, su una finanza, che permette in tempo reale, di spostare enormi somme di capitali, di comprare e vendere, quasi senza controllo, titoli di stato può, potenzialmente, definire le sorti di un paese, è successo alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo, all’Irlanda, anche all’Italia.

Questo è davvero compatibile con forme di democrazia lente, incerte negli esiti, farraginose, schiave delle burocrazie, come ad esempio quella Italiana? Certo la storia non è mai determinata da una sola causa, l’omicidio di Sarajevo fu solo l’ultima tappa di un complesso processo che portò allo scoppio della prima guerra mondiale, che fu agevolata anche da avanguardie letterarie, intellettuali, culturali, che inneggiavano un po' ovunque alla guerra come “Igiene del Mondo” tanto per non lasciar fuori Marinetti, che era sicuramente un caso limite, ma che si esprimeva in un contesto dove la sensazione diffusa era, almeno in gran parte delle élite, che il progresso non si sarebbe mai fermato e che necessariamente si sarebbe dovuti passare per una guerra. Le crisi economiche e sociali, che esistevano prima della crisi pandemica, saranno aggravate in maniera esponenziale dal virus, che non è una causa, ma uno straordinario acceleratore, del processo di lento deperimento, se non dello spirito democratico tout court, almeno della possibilità di rinunciare ad un pezzo di libertà in cambio di un pezzo di sicurezza, che includa non solo la salute, ma anche il destino lavorativo e quello di appartenenza ad una comunità che si prenda cura di te.

La complessità della situazione economica e sociale in Europa e più in particolare in Italia ha tempi di comprensioni lunghi e non consente risposte né semplici né rassicuranti. Potrebbe semplicemente trattarsi di un processo di non ritorno, è finito l’impero Romano, potrebbe finire, perché no, la centralità dell’Europa che ha garantito per anni forme di benessere e welfare sconosciute in altre parti del mondo. In breve chi oggi fornisce una risposta semplice ad un problema complesso ha molte possibilità di essere ascoltato e seguito. In fondo gli stessi social sono adatti a forme comunicative short, se possibile fatte di immagini e parole d’ordine evocative.

È quindi il lockdown una specie di allenamento a forme di ristringimento della libertà che può arrivare fino al superamento della democrazia? Certo, il distanziamento sociale non durerà in eterno, ma alla fine lo abbiamo accettato come misura necessaria per il nostro bene. Certo, non potremmo stare chiusi agli arresti domiciliari “fine pena mai” come in ergastolo, però in buon ordine ci siamo accomodati sui nostri balconi in un gigantesco “La finestra sul cortile” senza neppure essere diretti dal maestro Hitchcock. Se tutto finirà bene, come dicono i lenzuoli, alle finestre della prima ora, non lo so, spero di sì, ma qualcosa è successo, stava succedendo prima e continuerà a succedere, e questo succedere ha molto a che vedere con la paura e con la voglia disperata che ci sia una risposta semplice a tutti i problemi complessi, che ci sia un colpevole, che sia l’extracomunitario o il virus, l’ideale per qualcuno sarebbe l’extracomunitario con il virus, e non è detto che non ci si arrivi. E qualcosa che dice, ok ti garantiamo che tutto può andare bene però… si sente da tempo, e si sente sempre di più. In quel però, forse non si annida la previsione di Agaben, forse non è il virus della fine della democrazia, eppure in quel però sento una risposta che dice, va bene, se torna tutto, anche più o meno, come prima, non solo prima del virus, ma anche di tutto quello che già c’era, sono disposto a cederti un pezzo della mia libertà, alla fine non può essere peggio di quel distanziamento sociale che ho provato o delle infinte giornate chiuso in casa. Prenditi il mio telefono, traccia ogni mio spostamento, rimproverami se sbaglio, sii un padre premuroso, giusto e, se serve, severo, prenditi cura di me. Molti credo la pensino sempre di più così, pur non avendo letto Agaben. Io naturalmente no.
 
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Simone De Santi
Simone De Santi è nato a Siena, laureato in Scienze Politiche, ha studiato, lavorato e vissuto in vari paesi tra Europa e Sud America. Manager per oltre 20 anni nel 2020 decide di cambiare vita e fare l’insegnante di sostegno per alunni con disabilità in una scuola di campagna. 
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